ReArm Europe: ambizione o illusione?


C’è chi ha storto il naso sul nome della proposta di Ursula von der Leyen: ReArm Europe. Ma le vere criticità rilevate si concentrano sulle fonti di finanziamento dei circa 800 miliardi di euro da trovare in un quadriennio. Il ReArm EUproposto dalla presidente della Commissione ai capi di Stato e di governo prevede cinque punti:

  1. spese per la difesa escluse dai parametri dal Patto di stabilità; 
  2. debito europeo per fornire prestiti agli Stati a interessi più bassi; 
  3. destinazione alla difesa di parte dei fondi di coesione già programmati; 
  4. investimenti privati grazie al Mercato unico; 
  5. finanziamenti della Banca europea degli investimenti.

In realtà, tuttavia, già i primi due punti raggiungerebbero – nelle intenzioni – gli 800 miliardi. Il resto sarebbe evidentemente marginale, caratterizzato da alta complessità politica, incertezza o volumi molto ridotti. Il cuore della proposta sta dunque nel maggior debito pubblico, nazionale ed europeo: una scelta giustificata dalla necessità di mettere in campo investimenti in tempi rapidi, spalmare nel tempo il costo di sistemi d’arma con una vita operativa di alcuni decenni ed evitare misure impopolari – aumento delle imposte o taglio di altre voci di spesa – in un momento in cui l’opinione pubblica non sembra supportare ovunque il riarmo.

La proposta è però estremamente limitata sul finanziamento comune. Solo un sesto dei fondi arriverebbero da bond europei, sul modello che è stato il programma SURE per finanziare i sussidi di disoccupazione durante la pandemia. Il resto, 650 miliardi di euro, sarebbe frutto di debito pubblico nazionale escluso dai parametri del Patto di stabilità. Non dovrebbe quindi rispettare i limiti alla crescita della spesa netta da poco introdotti né i parametri del 3% del deficit annuo e del 60% di debito pubblico rispetto al PIL. Una via che soffre essenzialmente di due limiti.

Primo, per sua natura fa ricadere sulle spalle degli Stati l’intero onere di finanziamento sui mercati finanziari. Come sostiene una nota di Goldman Sachs, la semplice esclusione delle procedure di infrazione e delle multe europee non contribuirebbe a eliminare i rischi al rialzo dei rendimenti dei titoli di Stato – che già anzi si sono fatti sentire – e di turbolenze finanziarie. Al più manterrebbe sul tavolo la possibilità di accedere al TPI, lo “scudo anti-spread” della Banca centrale europea, di cui teoricamente possono beneficiare solo i Paesi membri dell’Eurozona che non sono in piena rotta di collisione con le regole fiscali. Questo significa che gli Stati maggiormente indebitati o con bilanci meno equilibrati – Italia e Francia in testa – rischiano di avere meno spazio fiscale per incrementare la spesa per la difesa. Se si vuole raggiungere la cifra-obiettivo di 800 miliardi, nel 2026, a metà del piano quadriennale di riarmo, solo la Germania rimarrebbe con un deficit sotto il 3% tra i grandi Paesi europei; Francia e Polonia supererebbero il 6, mentre Italia e Spagna arriverebbero al 4. Una condizione che non potrà durare per sempre: se le condizioni di sicurezza non mutassero repentinamente, andrebbe messa mano alla leva fiscale o alle voci di spesa pubblica. Anche se è pur vero che gli Stati più geograficamente prossimi alla minaccia russa sono tra i meno indebitati d’Europa e avrebbero dunque possibilità di sfruttare appieno le clausole nazionali del Patto di stabilità che si intende far scattare.

In secondo luogo, il debito nazionale non garantisce di per sé una maggiore cooperazione tra le aziende nazionali per ridurre la frammentazione dei sistemi d’arma. Un risultato efficacemente raggiungibile, invece, con il debito europeo, che può essere condizionato – come fu nel caso del Next Generation EU – a programmi di spesa pre-determinati. La stessa proposta di Ursula von der Leyen lo prevede e va considerata nell’ambito di un più ampio programma per l’industria europea di difesa, la cui necessità è stata sottolineata anche nelle conclusioni del Consiglio europeo straordinario di ieri. È giusto che così sia: se le sinergie industriali e degli standard delle forze armate le possiamo considerare come un bene pubblico – a beneficio di tutti, ma verso cui i singoli Stati e le singole società della difesa hanno scarsi incentivi – un finanziamento comune condizionato può offrire una soluzione. Questo finanziamento però, per essere efficace, deve manifestarsi attraverso iniziative che fanno parte di un approccio strutturato, fatto di identificazione comune delle aree di intervento, programmi di ricerca e sviluppo cooperativi – raggiungendo l’obiettivo del 20% fissato dall’Agenzia europea della difesa – e acquisizioni di sistemi europei, riducendo le dipendenze dagli Stati Uniti. Le aree di intervento prioritario saranno quelle in cui al momento di Stati membri hanno compreso di non essere all’altezza: caccia stealth di sesta generazione, sistemi di trasporto aereo pesante, sistemi di difesa aerea e antimissile, sistemi d’artiglieria, missili e soprattutto droni e sistemi anti-droni. 

È pur vero, tuttavia, che una maggiore ambizione si sarebbe probabilmente infranta contro le spaccature nel Consiglio europeo e la scarsa fiducia reciproca in termini di responsabilità fiscale. Se la Germania di Merz appare sempre meno reticente a usare la leva dell’indebitamento – anche se più nazionale che europeo –, Austria, Svezia, Paesi Bassi e Danimarca rimangono ancora fredde sulla condivisione del debito UE.



Source link

***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****

Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link

Source link