Pnrr – Missione Salute, Barbaresi (Cgil): sulla realizzazione delle opere gravi ritardi su cui il governo fa propaganda spicciola. Serve un’azione a partire dal territorio per centrare gli obiettivi


Il 30 giugno 2026 è data di conclusione del processo di attuazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e a poco più di un anno dal traguardo si cominciano a tirare le somme sullo stato dei progetti messi in campo. Tra le varie missioni che compongono il Piano è certamente sulla M6 riguardate la salute che si concentrano le aspettative più alte, soprattutto alla luce delle criticità emerse durante l’annus horribilis della pandemia. Eppure, stando al monitoraggio dell’Area Stato Sociale e Diritti della Cgil sulla base dei del sistema ReGiS, i ritardi nell’esecuzione dei lavori sono tanti e preoccupanti. Sono ancora troppo poche le opere completate e collaudate, avverte lo studio, ed è basso anche il livello di spese effettuate in rapporto ai finanziamenti. Uno scenario davvero allarmante che conferma il rischio di non conseguire gli obiettivi strategici entro le scadenze previste. Ne parla in questa intervista la segretaria confederale della Cgil, Daniela Barbaresi.

Di Pnrr si parla tanto e spesso, ma è evidente un problema di comunicazione nei confronti dei cittadini che non hanno piena conoscenza di una materia tanto cogente per la loro vita. Perché questo disinteresse?

Le persone non vivono con attenzione la sfida del Pnrr per una ragione molto semplice: perché il Pnrr ha al suo interno progetti innovativi e che rappresentano la concretizzazione di riforme a cui tendiamo da tanto tempo, ma per lo più i cittadini lo ignorano. Un esempio sulla sanità: il Pnrr, oltre a modernizzare gli ospedali e investire in tecnologia, destina 4 miliardi alla realizzazione delle Case e agli ospedali di comunità. Il Paese, però, ha molte aree interne che non sanno neanche cosa sia l’assistenza sul territorio; e se non se ha conoscenza, le persone non sanno nemmeno quali siano i servizi offerti. Per questo non si riesce a costruire quel moto di indignazione e azione necessaria a pretenderne la realizzazione. Le persone sanno che la sanità non funziona, che è sotto finanziata, c’è poco personale, ci sono le liste d’attesa, c’è la rinuncia di milioni di persone a curarsi: però si fa fatica a cogliere il fatto che proprio dentro questi progetti del Pnrr sono contenuti i presupposti per riorganizzare complessivamente la sanità e la tutela della salute. Oggi ci misuriamo con ospedali sovraffollati perché spesso non riesce ad avere una risposta dal medico di famiglia, che a sua volta è costretto ad avere un numero elevatissimo di assistiti. Ma se non sai che la risposta dovrebbe essere data dalla casa della comunità; se non sai che si dovrebbe garantire alle persone la possibilità di cure intermedie all’interno degli ospedali della comunità; se non sai che oggi c’è l’occasione per costruire un percorso che garantisca l’assistenza nel territorio, quindi una risposta più vicina alle persone, la battaglia non la fai. Ed è ancora più sintomatico che non lo sappiano nemmeno gli stessi amministratori locali, che non si schierano a favore di una battaglia per rivendicare la realizzazione di progetti già finanziati.

Qual è il ruolo del governo in questo aspetto?

Il governo non aiuta e anzi, fa esattamente l’opposto: propaganda spicciola di successi mai raggiunti. La Missione 6 del Pnrr, e in particolar modo i progetti che si traducono in interventi di edilizia pubblica destinati al sociale o alla sanità, sono i progetti che hanno maggiori ritardi e che hanno speso la percentuale più bassa di risorse a disposizione. Al 31 marzo 2025, come rilevato anche nel nostro rapporto, per le Case di comunità sono stati spesi solo il 12% delle risorse disponibili, quando a dicembre dello scorso anno eravamo a poco più del 9%. A questo ritmo ci vorranno sette anni per spendere questi soldi. Questo non possiamo accettarlo. Ci sono ritardi che devono essere aggrediti e affrontati e abbiamo solo un anno di tempo.

Che fare, dunque?

Sostanzialmente due operazioni. Per quel che riguarda la sanità i soggetti attuatori sono le regioni. Tuttavia il governo non può assumere un atteggiamento attendista, in vista di quello che poi si tradurrà in un fallimento. Bisogna agire, capire cosa determina il ritardo, quali sono le criticità che le amministrazioni stanno affrontando. E questo, oltretutto, è un problema che riguarda proprio le realtà territoriali che più avrebbero bisogno di quelle opere. Se prendiamo la Toscana, l’Emilia Romagna o il Veneto, si rilevano pochi ritardi – anche perché praticamente l’assistenza territoriale l’hanno inventata loro. Mentre tutto il Sud Italia, a partire da Molise e Sardegna, hanno i ritardi maggiori – e lo stesso dicasi per la Calabria, la Basilicata, la Puglia, la Campania. Abbiamo solo questa occasione per realizzare una vera assistenza territoriale, altrimenti si proseguirà nel solco di un’assistenza ospedaliera in affanno senza poter dare le risposte che servono a una parte della popolazione. Il malato cronico ha bisogno di assistenza territoriale, mentre l’ospedale deve servire per le acuzie.

Peraltro i dati sulla demografia danno ragione anche di questo rafforzamento della sanità.

Pensiamo all’invecchiamento della popolazione o al tema della non autosufficienza. C’è stato uno slogan molto efficace durante la costruzione del Pnrr: “Casa come luogo principale di cura”. È proprio questa la risposta che si dovrebbe dare agli anziani non autosufficienti, evitando di sradicarli da casa e portando, invece, la sanità al loro domicilio. Questo implica un’organizzazione del territorio: non solo Case e ospedali della comunità, ma anche infermieri di comunità che dovrebbero rispondere a un determinato bacino di abitanti, con un approccio integrato con il sociale. Il confine tra i bisogni sanitari e i bisogni di carattere socio assistenziale è molto sottile, quindi bisogna costruire una risposta multidimensionale adeguata a queste esigenze.

Torniamo ai ritardi. Può darci qualche dato?

Sono state realizzate circa il 2% delle Case della comunità e il 3% degli ospedali di comunità. La percentuale delle opere in ritardo è estremamente elevata e preoccupante: un terzo dei progetti ha ritardi non solo nell’esecuzione dei lavori, ma proprio nel loro avvio. Su 1.400 progetti, ci sono 420 Case della comunità i cui cantieri non sono ancora partiti, quasi un terzo del totale. Inoltre, ci sono 267 progetti per le Case della comunità che ancora non hanno completato la fase della progettazione esecutiva, per cui i cantieri non partiranno mai. La stessa cosa avviene per la messa in sicurezza degli ospedali. Vuol dire che quei progetti difficilmente vedranno la luce nell’arco di un solo anno.

Il tema dell’edilizia sanitaria è centrale tanto quanto la sicurezza degli operai che vi lavorano all’interno. Oggetto, questo, del vostro referendum dell’8 e 9 giugno.

Noi spingiamo affinché le opere vengano realizzate bene e in fretta, ma questa accelerazione deve avvenire nella garanzia della tutela di chi quelle opere le deve realizzare. Nell’ambito dell’edilizia sanitaria pubblica sono previsti 2.000 progetti per i quali sono previsti 12.000 appalti che, a loro volta, si traducono in subappalti. In questa catena di committenze deve esserci la garanzia di un lavoro che sia sicuro e tutelato. Per questo siamo impegnati nella campagna referendaria, tra i cui obiettivi c’è proprio questo: lavoro stabile e tutelato ma anche in sicurezza, a partire dalla catena degli appalti per la realizzazione delle opere pubbliche.

Un’altra criticità riguarda il personale che dovrebbe operare in queste strutture.

Un tempo si diceva di evitare le “scatole vuote”. Ma allo stato dei fatti oggi rischiamo di non avere neanche le scatole! La Missione 6 si realizza soprattutto se quelle strutture vengono dotate di personale. Il DM 77 interveniva prevedendo anche quelli che sono gli standard di personale necessari a far funzionare le Case e gli ospedali della comunità e l’assistenza domiciliare, senza contare i medici di medicina generale: servirebbero da un minimo di 24.000 a un massimo 36.000 unità. E invece ci troviamo con la legge di bilancio che quest’anno destina al comparto solo il 3% del PIL, il livello più basso in assoluto. Ma c’è anche un altro aspetto da sottolineare. Oggi possiamo dire che ci sono stipendi più alti, perché se non si tiene conto del fatto che l’inflazione ogni anno erode un pezzo di salario, l’affermazione è oggettivamente corretta in valore nominale. Ma se non si depura il valore nominale dall’effetto dell’inflazione si prendono in giro le persone. A proposito di personale, poi, uno dei motivi per cui non abbiamo firmato il contratto della sanità è perché significherebbe certificare la riduzione del potere d’acquisto reale del 10%: di fatto, i lavoratori hanno già perso il 17% di valore dei loro salari a causa dell’inflazione e il governo destina ai rinnovi contrattuali risorse per coprire a malapena il 6% di quello che hanno già perso.

Il tema del sottofinanziamento della sanità è tornato sui banchi del parlamento con un’accesa discussione tra la premier Giorgia Meloni e la leader dem Elly Schlein. Come si spiega l’atteggiamento di Meloni che parla di investimenti in sanità tra i più alti degli ultimi anni e il fatto che in rapporto al Pil il dato sia in caduta?

È un fatto curioso, perché in tutto il mondo il peso delle risorse destinate alla sanità è misurato in rapporto al Pil. Senza fare confronti con la Germania o la Francia, che sono al 10%, in Italia da oltre il 7% raggiunto durante la pandemia – anche se in quel periodo il Pil era basso – siamo tornati a scendere. L’Ufficio parlamentare di bilancio stima che nel 2030 il rapporto tra spesa per la sanità pubblica e Pil arriverà al 5,6%, cioè un punto percentuale in meno (pari a oltre 20 miliardi di euro) da quando si è insediato il governo Meloni. Poi certo i bilanci si fanno con i miliardi in valore assoluto: ma si può affermare che quei miliardi che il governo ha stanziato per la sanità pubblica sono insufficienti a coprire i bisogni futuri della sanità rispetto a quanto veniva coperto l’anno precedente. È un problema che le regioni segnalano da anni, sia a causa dell’inflazione che per effetto dei bisogni che aumentano. A crescere è il numero di persone che rinuncia a curarsi, segnale di una diseguaglianza inaccettabile. Impediremo in ogni modo che si torni alla sanità delle mutue, ma c’è una parte del Paese che vuole andare in quella direzione: sanità pubblica per i poveri e alla sanità privata per chi può permetterselo.

A questo proposito, e riallacciandoci al tema delle diseguaglianze tra il Sud e il resto d’Italia, vengono in mente i numerosi appelli del presidente della Repubblica all’unità sul tema salute. Una situazione, quella attuale, che si potrebbe aggravare con l’autonomia differenziata?

Con l’autonomia differenziata la situazione della sanità è destinata solamente a peggiorare. Già oggi la sua gestione è regionalizzata e vediamo quante sono le diseguaglianze profonde tra regione e regione. Ma c’è un indicatore in particolare che dovrebbe suscitare indignazione, ed è quello sull’aspettativa di vita alla nascita: tra un abitante del Mezzogiorno e uno del Nord c’è una differenza che supera i tre anni, e se andiamo a vedere le differenze nelle aspettative di vita in buona salute si superano i dieci. È chiaro che questo è il prodotto di tanti fattori, ma è anche l’effetto della capacità di un territorio di dare risposte ai bisogni di salute che non è fatta solo di ospedali ma anche di prevenzione, di risposte alla cronicità, di stili di vita sani, di servizi del territorio. Se non si riescono a garantire le giuste risposte nei diversi territori, il tutto si traduce in diseguaglianze. Altri indicatori preoccupanti sono la rinuncia alle cure e, in particolare, la mobilità sanitaria, che costringe le persone a spostarsi verso regioni più sviluppate, considerando tra l’altro che non tutti hanno la possibilità economica di viaggiare. Da questo punto di vista il Presidente Mattarella ha sempre messaggi estremamente chiari e autorevoli, che dovrebbero essere un monito per tutti.

A fronte di tutto ciò qual è il timore per la paventata rimodulazione del Pnrr?

Il governo sa benissimo che alcune opere non verranno realizzate e tenta di spostare quelle risorse verso altri progetti più facilmente realizzabili, se non addirittura cercando di spostarle verso incentivi o sostegno alle imprese senza nessuna condizionalità – anche alla luce della guerra dei dazi in corso – o per il finanziamento della difesa. Noi vogliamo mandare un messaggio chiaro: non devono essere toccati i progetti per la sanità e piuttosto il governo deve attivarsi perché si realizzino rapidamente. E che quel tesoretto da 14 miliardi di cui parlano da tempo sia destinato agli investimenti in politiche di welfare, siano esse di sanità pubblica o sociali. Questa deve essere la priorità.

Tra l’altro questa “disattenzione” alla sanità sembrerebbe essersi esplicata anche nell’astensione dell’Italia dal voto sull’Accordo pandemico globale dell’OMS. Che segnale dà questa azione?

Un atteggiamento totalmente irresponsabile, che indigna anche per la mancanza di rispetto nei confronti di tutte quelle persone che durante la pandemia sono morte. Se all’epoca ci fosse stata una rete di assistenza nel territorio più efficace, come quella che si vuole realizzare con il DM 77, le cose forse sarebbero andate diversamente. La regione più colpita è stata la Lombardia, che oltre a una più rapida diffusione del virus è stata in qualche modo penalizzata dal peso molto importante della sanità privata e dalla carenza di assistenza territoriale. Le regioni dove la sanità pubblica è più forte, invece, hanno risposto meglio. Per questo bisogna investire nella sanità pubblica. Peraltro, stando a statistiche e indagini internazionali, nonostante le difficoltà gli esiti della sanità italiana sono migliori di altri Paesi con sistemi sanitari diversi. E le stesse statistiche dimostrano che un sistema universalistico come il nostro è anche quello che garantisce un rapporto costi-benefici migliore. Se ce lo invidia tutto il mondo, perché non investiamo nel nostro sistema anziché privatizzare la sanità?

Qual è la differenza sostanziale, negli scopi, tra sanità pubblica e privata?

La sanità pubblica punta alla salute delle persone, con il primo obiettivo della prevenzione. Il privato, invece, investe sulla cura della malattia producendo prestazioni sanitarie. Il che è legittimo, sia chiaro, ma così si trasformano i cittadini in potenziali clienti. Tuttavia resta prioritario che con le risorse pubbliche si garantisca un diritto dei cittadini, investendo nella salute delle persone e non trasformandoli in consumatori di prestazioni.

Il che riguarda l’altra grande criticità delle liste d’attesa.

Il governo si vanta di aver affrontato il nodo, ma questa è una doppia bugia: innanzitutto perché nel decreto di un anno fa sulle liste d’attesa non è stato investito alcunché, e poi perché non hanno fatto altro che riprendere quelli che erano i contenuti del piano di contrasto delle liste d’attesa formulato dal governo precedente. Il problema è investire risorse nelle azioni per mettere il sistema pubblico nelle condizioni di funzionare e garantire le risposte ai cittadini che, altrimenti, hanno due strade: rivolgersi al privato o rinunciare a curarsi. Questo va impedito. Non si risolverà mai il problema delle liste d’attesa in maniera definitiva se non si investe nella prevenzione, nel territorio, nel personale pubblico. O si interviene per rafforzare il Sistema sanitario in tutte le sue articolazioni oppure le liste d’attesa non si fermeranno mai.

Questa dismissione dal pubblico può sottendere un gioco di lobby interna al parlamento?

Ci sono sicuramente grandi monopolisti in questa realtà. In Italia il privato-privato non esiste – o meglio, esiste il privato convenzionato e le persone sono libere di potercisi rivolgere. Resta centrale, però, che i cittadini possano accedere al Servizio sanitario nazionale, che peraltro pagano con le proprie tasse. È importante ricordare che il Servizio sanitario nazionale non ce l’ha regalato nessuno, ma è frutto di lotte e di mobilitazioni condotte in una stagione molto impegnativa da quel punto di vista. Le tre grandi riforme – la legge Basaglia sulla salute mentale, la 194 sull’aborto e la 833 che ha istituito il Sistema sanitario nazionale – sono state il frutto di grandi battaglie anche di lavoratori e lavoratrici che volevano uscire dalla gabbia delle mutue che distinguevano l’assistenza sanitaria a seconda della condizione lavorativa. Con le mobilitazioni di fatto vi è stata la realizzazione della Costituzione, e su questo siamo ancora fortemente impegnati.

L’Italia ha ricevuto la fetta più consistente dei fondi di Next Generation Eu perché messa peggio degli altri paesi, soprattutto per via di accentuati divari territoriali, di genere e generazionali. Allo stato dell’arte, la distanza con il resto d’Europa è colmabile?

È una domanda difficile. Facendo appello a l’ottimismo della volontà dobbiamo darci l’obiettivo di colmare quella distanza e rivendicarlo con forza. Dobbiamo arrivare quantomeno alla media degli altri paesi europei. Come sindacato sosteniamo che dovremmo investire in sanità almeno 7,5% del Pil per allinearci agli altri Paesi europei e in questo senso il Pnrr rappresenta una tappa importante. Ma se non realizziamo nei tempi giusti quelle opere, l’obiettivo lo vedremo sempre più lontano. Se non si dà ossigeno alla sanità si allontana anche l’obiettivo del pilastro europeo dei diritti sociali che mette le persone al centro. Tendiamo a ricordare l’Europa solo quando ci chiede cose che non condividiamo, ma forse sarebbe il caso di ricordare anche gli importanti obiettivi sul piano dei diritti delle persone che ci impone.

Il ministro Foti, che ha la delega per il Pnrr, parla di primato europeo dell’Italia, eppure sono gli stessi colleghi ministri a chiedere di rivedere 170 dei 351 obiettivi rimasti, il 48%. Cosa rivela a livello politico?

Dovrebbero ammettere una volta per tutte le difficoltà e affrontarle. Invece si continua a fare propaganda. Ma i dati parlano chiaro e non si possono negare. Tra l’altro sono numeri che fornisce il governo stesso: abbiamo speso solamente 12,4% dei finanziamenti. I ritardi da colmare, poi, sono a livello complessivo e non solo di realizzazione del Pnrr. C’è un’operazione di disinformazione dettata dalla necessità o dall’obiettivo che il Governo si pone di sottrarre quelle risorse e destinarle ad altro. Se ciò avvenisse sarebbe molto grave, ma noi faremo di tutto per impedirlo. Però serve un’azione anche a partire dal territorio. Noi chiediamo a tutte le amministrazioni locali e le associazioni nel territorio di presidiare assieme a noi questa partita, di difendere il più possibile quegli obiettivi e fare in modo che si raggiungano.

Elettra Raffaela Melucci



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