Referendum, cosa cambia per i licenziati nelle piccole imprese?


Su scheda arancione, uno dei quesiti del referendum dell’8 e del 9 giugno chiede ai cittadini se vogliono parzialmente cancellare l’art. 8 della legge 604/1966 sul recesso da parte dell’azienda, facendo venir meno il tetto all’indennità di licenziamento per i dipendenti delle piccole imprese, quelle con meno di 16 dipendenti.

Per fare chiarezza sui possibili esiti della consultazione e valutare se i diritti dei lavoratori potranno essere rafforzati davvero, ricordiamo anzitutto che oggi la legge prevede un’indennità massima pari a 6 mensilità della retribuzione globale di fatto, anche se il licenziamento è riconosciuto dal giudice come ingiusto.

Per chi va a votare al referendum, o sta valutando se andarci, è essenziale capire quanto effettivamente vale oggi la tutela dei lavoratori e cosa potrebbe cambiare votando SÌ all’abrogazione. Cerchiamo allora di capirlo con alcuni casi pratici.

Dipendente di una piccola impresa con 10 anni di anzianità

Facciamo l’esempio classico di un lavoratore di una piccola o micro impresa, con 10 anni di anzianità e uno stipendio di 1.500 euro al mese. Anche se il licenziamento ipoteticamente avvenuto nel 2024, viene ritenuto dal tribunale palesemente ingiusto o senza motivo valido, la sua indennità non potrà superare i 9mila euro.

A ben vedere, una cifra spesso inadeguata a compensare la perdita del lavoro e il tempo necessario per trovarne uno nuovo, il carovita e l’inflazione, il disagio psicologico e l’improvvisa mancanza di entrate nel bilancio familiare.

Se vincesse il SÌ sarebbe rimosso il limite e abrogato il tetto massimo delle 6 mensilità. Il magistrato avrebbe un potere discrezionale più ampio, nella valutazione del danno effettivo subito dal lavoratore. Questo vuol dire che, in presenza di situazioni particolarmente gravi o penalizzanti, il risarcimento potrebbe salire anche a 12, 15 o più mensilità.

A orientare il giudice sarebbero vari criteri, tra cui l’anzianità di servizio, la difficoltà di reinserimento nel mercato del lavoro (per età, contesto territoriale, settore di impiego), il comportamento dell’impresa, i carichi familiari, il fatturato dell’impresa o il danno concretamente subito dal lavoratore.

In sintesi, se oggi un licenziamento senza motivo in una piccola azienda ha un costo relativamente contenuto per l’imprenditore, con la modifica referendaria si rafforzerebbe la protezione del lavoratore, disincentivando comportamenti arbitrari e offrendo un risarcimento più equo e commisurato ai danni subiti. Non solo. Se l’articolo citato in apertura fosse abrogato, le piccole imprese farebbero più attenzione a evitare licenziamenti arbitrari e un potenziale effetto boomerang.

Irretroattività della legge

C’è un altro importante aspetto da considerare. In caso di vittoria del SÌ al referendum dell’8 e 9 giugno prossimi, la modifica normativa avrebbe effetto esclusivamente per i licenziamenti avvenuti dopo l’entrata in vigore dell’abrogazione, non per quelli già avvenuti o per cause già in corso.

Vale infatti il principio di irretroattività delle norme, secondo cui le regole sul risarcimento e sulle conseguenze del licenziamento si applicano in base alla legge vigente al momento in cui il licenziamento è stato inflitto.

Tornando all’esempio di sopra, se il lavoratore con 10 anni di esperienza è già stato licenziato prima dell’esito referendario, il giudice continuerà ad applicare il limite attuale delle 6 mensilità, anche se il processo è ancora in corso.

La nuova disciplina, più favorevole, si applicherebbe meramente ai licenziamenti effettuati dopo l’abrogazione ufficiale della norma. Anche questo, quindi, è un aspetto da valutare per decidere se andare a votare e cosa votare.

Piccola impresa contro grande azienda: tutele diverse

Il confronto con le imprese un po’ più grandi aiuta ulteriormente a capire che cosa potrebbe cambiare. Oggi, un lavoratore licenziato senza motivo valido in una grande azienda gode di tutele sensibilmente diverse, rispetto a chi lavora in una piccola realtà.

In linea generale, sempre prendendo ad esempio un dipendente con 10 anni di anzianità, se impiegato in una grande realtà e licenziato ingiustamente, potrà chiedere al giudice un risarcimento anche fino a 36 mensilità, sulla base del d.lgs. 23/2015 (Jobs Act) e del successivo decreto Dignità del 2018.

Di fronte all’identica ingiustizia, quindi, un lavoratore di una grande impresa potrebbe ottenere fino a 54mila euro o più, contro i 9mila euro massimi previsti per il collega di una piccola azienda. Se vincesse il SÌ al referendum, si ridurrebbe questa distanza. Anche nei contesti aziendali con meno di 16 dipendenti, il giudice potrebbe aumentare l’indennità in modo proporzionato al danno sostanziale, avvicinando le tutele tra le due categorie di lavoratori.

Differenza di oneri risarcitori a seconda delle dimensioni

Un potenziale problema è che, eliminato il limite massimo, il giudice potrebbe stabilire un indennizzo molto elevato, persino più alto previsto per i dipendenti delle grandi aziende, determinando un onere potenzialmente molto pesante per piccole realtà produttive.

A ben vedere questo rischio, senza un limite certo ai risarcimenti, potrebbe scoraggiare le piccole imprese dal fare assunzioni. E non a caso le aziende in genere preferiscono le dimissioni al recesso.

C’è poi da dire che la tutela reale, ossia la reintegra nel posto di lavoro, scatta se la risoluzione del rapporto avviene per motivi discriminatori (a causa ad esempio del credo religioso, dell’appartenenza a un’organizzazione sindacale o per l’orientamento sessuale) e indipendentemente dalle dimensioni dell’azienda. Il referendum chiede ai cittadini se eliminare il tetto massimo del risarcimento, ma non cambia la natura dei rimedi contro i recessi ingiusti.

Equità e diritti a due velocità?

A ben vedere, il quadro delle regole attuali evidenzia una profonda disparità di trattamento tra lavoratori, determinata non dalla gravità del licenziamento, ma dalla dimensione dell’azienda. Chi lavora in una piccola impresa è oggi meno protetto e spesso risarcito in modo inadeguato, anche di fronte a licenziamenti palesemente ingiusti.

Sulla scorta di quanto raccomandato dalla Corte Costituzionale con la sentenza 183/2022, il referendum propone di riequilibrare questo divario, restituendo al magistrato la possibilità di valutare caso per caso e riconoscere un risarcimento più giusto, quando le circostanze concrete lo impongono.

È un passaggio che va nella direzione di una maggiore equità sostanziale, e che pone una domanda fondamentale: i diritti fondamentali del lavoro possono dipendere dalla dimensione dell’azienda in cui si è assunti? Il referendum, con il possibile superamento del tetto alle 6 mensilità, tenta di dare una risposta più uniforme e coerente con i principi costituzionali di uguaglianza e dignità del lavoratore.

Dall’altra parte della medaglia, però, si trovano le aziende che non hanno grandi fatturati e che potrebbero trovarsi in seria difficoltà di fronte a risarcimenti particolarmente gravosi sui bilanci – e che potrebbero anche rischiare il fallimento, deludendo così le aspettative anche del lavoratore che aveva presentato la vertenza in prima battuta.





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