Le aziende hanno un limite etico? No, non è una domanda di questo secolo. È un interrogativo che ci accompagna da sempre, da quando l’uomo ha deciso di barattare, commerciare, produrre, accumulare. Non è un caso se il padre dell’economia politica classica è, prima di tutto, un filosofo morale. Adam Smith scrive La ricchezza delle nazioni, ma prima ancora ci regala La teoria dei sentimenti morali. È lì che si nasconde la chiave: il mercato non funziona senza una bussola interiore, senza una coscienza.
Questa coscienza, oggi, si chiama Terra. Non il pianeta in sé, ma l’idea della Terra. L’immagine simbolica di un mondo che non possiamo più trattare come un magazzino a perdere. Non è questione di ideologia, ma di sopravvivenza. L’etica del capitalismo contemporaneo si gioca tutta sulla sostenibilità. È il nuovo termometro del profitto. Non basta più vendere: bisogna raccontare una storia, una visione, un futuro. E quel futuro, inevitabilmente, passa dalla materia prima più contesa del nostro tempo: i minerali rari.
È un paradosso. Per costruire un mondo sostenibile, abbiamo bisogno di scavare nelle viscere del pianeta. Per liberarci dal petrolio, ci servono litio, cobalto, terre rare. Per produrre auto elettriche, batterie, pannelli solari, turbine eoliche, dobbiamo aprire miniere, spesso in Paesi dove le regole del gioco sono truccate, o dove il gioco non ha regole.
Qui si apre il cuore del problema: il capitalismo ha imparato a parlare la lingua dell’ecologia, ma ha cambiato davvero grammatica? Oppure ha semplicemente riformulato lo stesso discorso in modo più accattivante? C’è una differenza sottile tra etica e marketing etico. La prima impone dei limiti, la seconda li aggira, li trucca, li rende vendibili.
La corsa ai minerali rari è l’emblema di questa ambiguità. Prendiamo il Congo. Il sottosuolo congolese è un forziere di cobalto, fondamentale per le batterie dei veicoli elettrici. Ma dietro ogni tonnellata estratta si nasconde un costo che non compare nel bilancio: sfruttamento minorile, inquinamento delle acque, conflitti armati. Lo stesso vale per il litio in America Latina o le terre rare in Cina. Il capitalismo verde ha un lato oscuro che non vuole guardare troppo a lungo negli occhi.
Eppure, qualcosa si muove. Le imprese hanno iniziato a percepire che l’etica non è solo un freno, ma un investimento. Non è (solo) idealismo, è anche realismo. I consumatori sono cambiati. Vogliono sapere da dove arriva ciò che acquistano, chi lo ha prodotto, in quali condizioni. Vogliono sentirsi parte di un’economia che non divora il futuro. Questo ha costretto il capitalismo a una metamorfosi. L’impresa del XXI secolo non può più essere solo efficiente: deve essere anche decente.
La differenza la fa la narrazione. Un prodotto etico ha un valore aggiunto che il mercato riconosce. Le aziende si contendono certificazioni, etichette, standard ambientali. Alcune davvero ci credono, altre si adeguano per convenienza. Ma il risultato è che l’etica è entrata nel perimetro del profitto. È diventata una variabile strategica. E questo, per quanto cinico possa sembrare, è già un passo avanti.
Ma non basta. Serve una mappa, una bussola. Serve capire dove stiamo andando. Il rischio è che la nuova utopia verde diventi l’alibi perfetto per un neocolonialismo tecnologico. I Paesi ricchi salvano il pianeta, mentre quelli poveri pagano il conto ecologico. È una narrazione comoda, ma falsa. Non esiste sostenibilità senza giustizia. Non esiste futuro senza equità.
Adam Smith lo direbbe meglio di chiunque altro. Il mercato funziona solo se è incastonato dentro un sistema di valori. Se perde il legame con la comunità, con la fiducia, con la reciprocità, implode su se stesso. L’avidità, da sola, è una cattiva consigliera. La ricchezza delle nazioni non si misura solo in PIL, ma in benessere condiviso.
Forse il capitalismo è a un bivio. Può scegliere se diventare maturo o restare adolescente. Maturare significa accettare dei limiti. Non quelli imposti da una burocrazia ideologica, ma quelli suggeriti dalla realtà. Il limite ecologico è il nuovo orizzonte dell’economia. Non possiamo più vivere come se la Terra fosse infinita. Né possiamo affidarci a una tecnologia miracolosa che ci salverà all’ultimo minuto.
La vera sfida è politica. È immaginare un sistema che premi le imprese virtuose, che penalizzi lo sfruttamento, che tuteli i diritti umani lungo tutta la filiera produttiva. Non possiamo lasciare che siano solo i consumatori a guidare il cambiamento. Occorre una visione collettiva. Una responsabilità condivisa.
Il futuro si costruisce anche con i minerali rari, ma non deve diventare una nuova corsa all’oro. La lezione, semmai, è che non esistono scorciatoie. Ogni innovazione ha un prezzo. La domanda è: chi lo paga?
Il capitalismo può avere un limite etico, ma solo se noi glielo imponiamo. Non con la forza, ma con la scelta. Con l’educazione, con la trasparenza, con la vigilanza. Non dobbiamo affidarci alla bontà delle aziende, ma alla nostra capacità di chiedere conto. Di leggere le etichette. Di premiare chi rispetta le regole. Di immaginare un’economia che non sia solo efficiente, ma anche giusta.
Alla fine, la vera ricchezza delle nazioni è questa: la capacità di costruire un futuro in cui il profitto non sia nemico del bene comune, ma suo alleato. È un compito difficile, certo. Ma è l’unico che valga la pena di affrontare.
Di
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