Alla base della nuova normativa relativa ai principi generali, con valenza s’è detto sistematica, figura l’art. 2086 c.c., da ritenersi ormai un caposaldo delle norme generali sull’impresa, più in particolare sull’imprenditore – già definito, in passato, “capo dell’impresa”, dal quale “dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori” (primo comma dell’art. 2086 c.c.) -, arricchito nel 2019 con un nuovo (secondo) comma, introdotto dalla riforma delle procedure concorsuali (dunque dal nuovo diritto della crisi e dell’insolvenza)[16].
La novella prevede che l’imprenditore, il quale operi in forma societaria o collettiva, ha il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell’impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale.
Formalmente riconducibile al D.Lgs. n. 14/2019 (che, com’è noto, ha inciso altresì sull’art. 2476 c.c., con la responsabilità solidale degli amministratori, i quali non abbiano rispettato la nuova norma di cui all’art. 2086, comma 2, c.c., per i debiti della società), l’innovazione costituisce, al contempo, uno degli esiti dell’evoluzione del diritto della crisi d’impresa, ma anche un tassello importante nella disciplina generale dell’impresa, in linea evidentemente con la detta evoluzione normativa, espressione della più significativa e radicale riforma di sistema dei nostri tempi, in ambito di diritto privato[17].
In questo senso, non deve stupire che la nuova norma sia stata inserita nell’art. 2086 c.c., ossia in una disposizione emblematica di un’epoca e di una cultura giuridica che sembrano oggi molto lontane: una previsione normativa incentrata sull’affermazione del principio gerarchico – da cui la rubrica “Direzione e gerarchia nella impresa” -, che giustifica il potere di organizzazione, nonché i poteri direttivo, di controllo, disciplinare e così via, al fine di fissare i termini fondamentali del rapporto tra l’imprenditore e i prestatori di lavoro o, più in generale, i suoi collaboratori nell’attività d’impresa.
Si tratta di un’importante integrazione della disciplina dell’attività d’impresa, che nasce e matura in ambito di diritto della crisi e delle procedure per la sua gestione e il suo superamento – può essere sufficientemente emblematico il già rilevato nesso strettissimo che intercorre con l’art. 3 CCII – e diventa norma generale, al punto da meritare la collocazione nel Titolo II del Libro V del codice civile, dell’impresa e della sua attività. La sua saldatura, per così dire, con il diritto societario è assicurata dalla connessa (e consequenziale, in un certo senso) disciplina della responsabilità degli organi sociali, a cominciare naturalmente dagli amministratori – di qui, il già ricordato contemporaneo intervento innovativo sull’art. 2476 c.c. -, che ne risulta significativamente modificata in termini sistematici, come si cercherà di evidenziare nelle pagine seguenti[18].
La rilevanza della nuova disciplina non è sfuggita, in primo luogo evidentemente alla dottrina di matrice commercialista[19], ma si può dire che anche la giurisprudenza, sin dalle prime decisioni emesse a ridosso della novella, non ha mancato di valorizzare l’innovazione normativa[20]. È inoltre evidente che, sempre in termini generali, la disciplina del “diritto societario della crisi” finisce per imporre anche un attento riesame del principio c.d. di “neutralità organizzativa”[21], nel senso di una sorta di tendenziale indifferenza della forma organizzativa del soggetto (societario) rispetto al diritto della crisi e dell’insolvenza, incidente prima facie sulle vicende dell’attività (d’impresa, s’intende pur sempre riconducibili al soggetto imprenditore in forma collettiva, ossia con la veste della società commerciale)[22].
La novella che fa capo al secondo comma dell’art. 2086 c.c. rappresenta, in modo a ben vedere esemplare, il mutamento di prospettiva (da ritenersi ormai irreversibile), secondo la quale va sviluppandosi la tendenza, per un verso, a legare in modo pressoché indissolubile l’organizzazione e la gestione dell’impresa alla prospettiva della sua crisi, anche sul piano squisitamente giuridico – e non soltanto, dunque, in termini economico-aziendali, come è sempre accaduto in passato -, per altro verso, ad attribuire una sempre più marcata rilevanza alle vicende dell’attività organizzativa e gestionale dell’impresa sugli assetti societari, in relazione ai diritti e agli obblighi degli organi, con quanto ne consegue in punto di responsabilità a loro carico, anche con riferimento alle vicende e alla fenomenologia delle società operanti nell’ambito di un gruppo[23].
In tal modo, la costruzione giuridica semplificata, per così dire, che rappresentava la figura dell’imprenditore, in una prospettiva statica, quale vertice ideale dell’organizzazione e della gestione dell’attività, può dirsi definitivamente superata e sostituita (o comunque, se si preferisce, arricchita) dalla previsione esplicita, a livello normativo, della sua funzione (con le conseguenti ricadute in termini di responsabilità), in generale esprimibile come duplice dovere: (a) di vigilare sull’idoneità dell’organizzazione a far fronte alle eventuali difficoltà determinate dai momenti critici e – nel caso in cui sia necessario reagire – (b) di operare per gestire tali difficoltà nel modo più efficiente, in primo luogo nell’interesse prioritario dei creditori[24]. Sempre dal punto di vista di questi ultimi, dunque nella prospettiva di massimizzare la tutela dei creditori, anche questo intervento normativo vale a confermare come il patrimonio del debitore-imprenditore, oggetto di garanzia nella realizzazione coattiva del credito, non possa essere considerato se non nella sua dimensione dinamica, connaturale all’attività d’impresa, che costituisce s’è detto il termine di riferimento oggettivo della tutela[25].
Il primo dato normativo, con il quale occorre fare i conti, attiene agli “assetti organizzativi”, dei quali si richiede l’idoneità a consentire la tempestiva rilevazione della crisi (o comunque della difficoltà o disfunzione), in funzione dell’adozione delle misure per la gestione più corretta della situazione, nella prospettiva della massima tutela dei creditori. La funzione che la norma attribuisce alla dotazione degli assetti organizzativi è dunque preventiva[26], per così dire, incidendo sugli obblighi dei gestori, nella prospettiva della prevenzione appunto degli effetti della crisi, ove tempestivamente rilevata, mediante la previsione di obblighi affidati a una formula di carattere generale, che andranno a concretizzarsi nella specificità dei diversi contesti economici e imprenditoriali, ossia con riferimento all’attività di impresa, come risultato ed espressione dell’inevitabile organizzazione, da cui il soggetto imprenditore collettivo non può prescindere[27].
La sensazione che sia in atto una sorta di ricomposizione dell’intero sistema relativo al diritto dell’impresa sembra confermata dal collegamento ideale della norma in esame, innanzitutto con l’art. 3 CCII, ma anche con l’art. 12 CCII, che richiama “l’assetto organizzativo adeguato” in ambito di “procedure di allerta”, senza trascurare le diverse disposizioni del diritto societario (ad esempio, artt. 2086, 2257, 2475, 2380 bis, 2477, 2486 c.c., in aggiunta al riferimento centrale dell’art. 2381 c.c.)[28]. Si comprende come l’attenzione alla conservazione della “continuità aziendale” e, pertanto, il monitoraggio costante, affidato in primo luogo agli assetti organizzativi adeguati – da ritenersi tali, se consentono in termini effettivi il monitoraggio -, debbano connotare la vita del soggetto economico collettivo (ossia operante in forma societaria) in ogni momento, proprio per la funzione di prevenzione affidata alla nuova disposizione normativa.
Va da sé che l’obbligo, gravante sull’imprenditore in termini generali, comporta il sorgere di doveri di nuovo conio per tutti gli organi della società – amministratori, sindaci e soci, ciascun organo con i suoi propri compiti e prerogative -, non tipizzabili ex ante, in quanto desumibili (anche e soprattutto) dalla specificità del contesto e con la precisazione che, rispetto ai soci, al diritto di controllo (previsto dalle diverse disposizioni, a seconda della tipologia societaria) si aggiungono i doveri (non tipizzabili, s’è detto, ma desumibili dal contesto) derivanti dalla generale anteposizione – quale carattere, se si preferisce una sorta di principio, del nuovo assetto sistematico – della tutela dei diritti dei creditori agli interessi degli stessi soci. La conseguenza è che costoro, sempre ragionando in termini generali, non potranno ostacolare le decisioni dell’organo gestorio intese a tutelare i creditori, senza incorrere in una condotta illecita (astrattamente suscettibile di valutazione in termini di effetti pregiudizievoli e dunque di tutela risarcitoria).
In questo senso, tuttavia, si spiega anche la competenza esclusiva dell’organo amministrativo a decidere, con quanto ne consegue in termini di potere e responsabilità per le conseguenze delle decisioni, sulle diverse opzioni organizzative e gestionali, sino alla “adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi e della perdita della continuità aziendale” (art. 2086, comma 2, c.c.).
Una decisione, quella dell’organo gestorio, che in linea di principio potrebbe risultare in conflitto con gli interessi dei soci (come espressi dalla volontà della maggioranza), fermo, da un lato, il principio della necessaria informazione da rendere a questi ultimi, dall’altro lato il diritto degli stessi soci di opporsi (come soggetti “interessati”) all’omologazione dell’accordo di ristrutturazione o del concordato preventivo, facendo valere ragioni rilevanti, tuttavia, soltanto sul piano della valutazione in termini di legittimità (e non di opportunità, ossia nel merito delle scelte gestionali).
La modifica dell’impostazione sul piano sistematico appare pertanto radicale, rispetto al passato, in quanto i (nuovi) doveri gravanti sugli amministratori non vedrebbero i soli soci quali ‘controparti’ del rapporto obbligatorio – al di là della relazione con i diritti e gli obblighi originati dal mandato, che comunque lega l’amministratore alla società e caratterizza il relativo rapporto -, ma tutti i (diversi e variegati) soggetti, i cui interessi possono essere pregiudicati dalla crisi, secondo il principio generale di cui è espressione l’art. 3 CCII[29].
È indubbio che, dal punto di vista dei contenuti degli obblighi aventi a oggetto gli assetti organizzativi e la loro adeguatezza, la formulazione normativa generale debba trovare riscontro concreto in specifiche regole di condotta, che consentano di valutare l’idoneità delle scelte e le conseguenze delle stesse (così come delle omissioni colpevoli), rispetto ai criteri generali enunciati, ma anche agli obiettivi del legislatore, rappresentati in primo luogo, s’è detto più volte, dalla tutela dei diritti dei creditori. La formula normativa, inevitabilmente generale, non potrà, pertanto, non essere applicata con riferimento alle regole e alle prassi della corretta gestione amministrativa e contabile, nel contesto dell’attività economica in questione e, dunque, in primo luogo alla luce delle condizioni contingenti in cui la stessa attività si svolge.
La questione al centro del nuovo sistema attiene, come del resto tutti gli studiosi hanno rilevato sin dall’inizio, al rapporto tra gli obblighi degli amministratori (ma non solo loro, evidentemente, all’interno della compagine societaria) e la discrezionalità delle scelte, rilevando i criteri gestionali ispirati al noto principio che fa capo all’espressione anglosassone business judgment rule. Un principio, quest’ultimo, che non potrà mai essere cancellato (essendo connaturale alla gestione di un’attività economica e, dunque, non può essere condizionato dalla nuova normativa), ma che, allo stesso tempo, non può non avere un limite, si direbbe intrinseco alla stessa discrezionalità che esso esprime[30]. Il limite va così individuato, in termini generali, nell’irrazionalità delle scelte, rispetto alla situazione in cui si svolge in concreto l’attività d’impresa, ma che oggi opera anche nella prospettiva della tutela, in via preventiva secondo la ratio della riforma, dei diritti dei creditori[31]. Sul punto occorre ritornare, trattandosi di un punto nodale nell’esame della responsabilità dei gestori dell’impresa (infra, n. 4).
La discrezionalità tecnica degli amministratori non è dunque soppressa, né potrebbe mai esserlo invero, attesa la sua – ontologica, si direbbe tentati di dire – appartenenza ai compiti e, in generale, alla funzione gestoria[32], ma tanto la predisposizione, quanto la verifica, ossia il monitoraggio (non in se stesso considerato, bensì) funzionale all’attivazione – ove la situazione aziendale lo esiga, s’intende – delle misure idonee a contenere e comunque gestire la crisi, si realizzano in un contesto di discrezionalità gestoria orientata e caratterizzata dal principio, più volte ricordato, della massima tutela dei creditori. Lo scenario, quindi, si presenta ben più complesso e articolato, rispetto ai vecchi (sempre validi, peraltro) divieti di porre in essere nuove operazioni, in funzione di una gestione – come si diceva – di natura conservativa).
Le decisioni e gli atti posti in essere dagli amministratori, dal contenuto normativamente non predeterminato, dovranno pertanto rispondere alle finalità che, invece, vengono individuate dal legislatore con estrema chiarezza. Tali finalità, esprimendo principi dell’ordinamento (nella materia in esame) e criteri generali che devono guidare le scelte operative, costituiranno il parametro o, se si preferisce, il filtro per valutare anche le condotte degli amministratori predeterminate dal legislatore, in presenza di determinati presupposti (ossia gli obblighi in qualche modo tipizzati, nel tessuto del diritto societario contenuto nel codice civile innanzitutto, senza considerare tuttavia le nuove tendenze evolutive del sistema).
Delicate questioni potranno porsi, nel contenzioso che alla luce dei nuovi obblighi sorgerà, tanto all’interno dei rapporti tra organi societari – in primo luogo, alla luce del mandato che lega gli amministratori alla società -, quanto all’esterno, ossia per il pregiudizio sofferto dai creditori, in relazione all’onere probatorio, che vede a carico dell’attore la dimostrazione dell’irrazionalità delle scelte e della condotta gestionale, oltre che del danno, quale conseguenza immediata e diretta della gestione, che si assume in violazione degli obblighi, tanto di predisposizione e monitoraggio degli assetti organizzativi, quanto di attivazione tempestiva delle procedure di gestione della crisi.
Sempre sul piano probatorio, all’amministratore, quale preteso danneggiante, spetterà invece dimostrare la rispondenza della sua condotta alle regole e alle prassi di corretta e oculata gestione – avvalendosi anche dei modelli delle scienze aziendalistiche, non di rado ordinati e resi concretamente fruibili nelle elaborazioni di regole e principi da parte delle associazioni professionali ovvero nei codici di autodisciplina -, ma soprattutto dovrà essere provato il rispetto del principio di tutela (prioritaria) degli interessi e dei diritti dei creditori, con riferimento alle situazioni specifiche e dunque ai contesti in cui la condotta gestoria è stata posta in essere.
Se entrambe le prove appaiono prima facie complesse, è la prova ‘liberatoria’ a carico dell’amministratore, che sembra tutt’altro che agevole, in quanto lo stesso esito infausto dell’attività d’impresa, agevolando in un certo senso la dimostrazione a carico dell’attore dell’irrazionalità delle scelte gestorie (così come delle colpevoli omissioni) nel contesto dato, nonché del nesso causale tra la (pretesa) violazione e il pregiudizio economico, complicherà, all’opposto, la difesa dell’organo gestorio, il quale dovrebbe probabilmente ricorrere alla dimostrazione di circostanze imprevedibili e in nessun modo gestibili, secondo le tecniche e le prassi della diligente e corretta amministrazione, tali da vanificare gli assetti organizzativi, ancorché in astratto adeguati alla natura e alle dimensioni dell’attività[33].
L’intreccio che inevitabilmente viene a crearsi tra gli obblighi relativi alla predisposizione degli assetti adeguati e quelli, successivi ed eventuali, relativi al ricorso alle procedure per la gestione tempestiva della crisi ovvero della situazione di difficoltà, non può che complicare le valutazioni da compiere in sede contenziosa, rispetto alle quali occorrerà attendere con pazienza che si sedimentino gli orientamenti giurisprudenziali, in termini di diritto vivente dell’innovato sistema normativo.
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