Quanto vale in meno il lavoro di una donna rispetto a quello di un uomo? 

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C’è una crepa invisibile che scava il tessuto economico e sociale italiano. Lo segna da sempre, si restringe lentamente da decenni, ma rimane lì. Si insinua negli uffici e nelle fabbriche, nelle aule universitarie e nei consigli d’amministrazione. Questa crepa ha un nome quasi accademico: divario retributivo di genere. Ed è rappresentata da un semplice numeretto: 5,6 per cento. Tradotto, vuole dire che mediamente le donne in Italia sono pagate meno degli uomini, come se ogni anno lavorassero quasi un mese gratuitamente.

Peraltro, il divario nel settore privato è molto maggiore che nel pubblico, arrivando al 15,9 per cento (quindi è come se le donne lavorassero gratis per due mesi, non uno). Nonostante i progressi compiuti, gli ultimi dati dell’Istituto nazionale di statistica (Istat) non solo mostrano che le donne continuano a percepire salari inferiori rispetto ai colleghi uomini ma che sono spesso maggiormente coinvolte nelle attività domestiche non retribuite. Faticano due volte: prima al lavoro, poi a casa.

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Dati sul divario di stipendio

Secondo l’Istat, nel 2022 la retribuzione oraria media nelle imprese con almeno dieci dipendenti si attestava a 15,9 euro per le donne e 16,8 euro per gli uomini (da qui il 5,6 per cento). Un divario che si traduce in migliaia di euro di differenza e, su una vita lavorativa, in una forbice economica che condiziona enormemente pensioni, stabilità e prospettive future. Questo è ancora più evidente nelle retribuzioni lorde annue: 33.807 euro per le donne contro 39.982 euro per gli uomini.

Ma la disparità non è uniforme. Si amplifica nei livelli di istruzione più alti, dato che le donne laureate guadagnano il 16,6 per cento in meno dei colleghi maschi. E aumenta soprattutto nelle posizioni dirigenziali, dove tocca addirittura il 38,8 per cento. Laddove il merito dovrebbe essere l’unico metro di giudizio, le donne si trovano a dover fare i conti con quello che è stato da tempo definito un “soffitto di cristallo”: un barriera invisibile, ma che non permette loro di raggiungere gli uomini.

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Lavoro precario e il prezzo della maternità

Il mercato del lavoro femminile si muove lungo un crinale instabile. Le donne sono più spesso impiegate in contratti “non standard”, una definizione elegante per indicare la precarietà: il 45,7 per cento delle giovani lavoratrici ha contratti a termine o part-time, contro il 33,9 per cento dei coetanei maschi. Nel Mezzogiorno, poi, il divario si fa ancora più netto, con il 36,1 per cento delle donne rispetto al 22,1 per cento degli uomini.

E la maternità, lungi dall’essere una scelta neutra e libera, si rivela ancora una volta un punto di svolta penalizzante: il tasso di occupazione delle donne tra i 25 e i 49 anni con figli sotto i sei anni crolla al 55,5 per cento, mentre le donne senza figli lavorano nel 76,6 per cento dei casi.

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Lavoro domestico

A questa situazione si aggiunge l’enorme mole di lavoro domestico che ancora ricade soprattutto sulle donne. La cura dei figli, dei compagni, dei mariti, degli anziani, della casa: mediamente, il 61 per cento del tempo libero femminile è dedicato a questa mansioni. Mentre gli uomini ci si dedicano appena il 23 per cento. Senza sufficienti strutture di supporto come asili nido e doposcuola, il carico di lavoro sulle donne aumenta riducendo le possibilità di lavoro, con crescenti disparità.

Questi dati – possiamo dirlo apertamente – raccontano una società in cui il lavoro di cura ricade ancora in larga misura sulle spalle femminili, costringendo molte a scegliere tra carriera e famiglia, tra stipendio e figli, tra realizzazione professionale e responsabilità domestiche.

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Soluzioni per ridurre il divario di genere

Soluzioni? Le politiche salariali dovrebbero essere riviste per garantire maggiore trasparenza e rendere obbligatoria la pubblicazione degli stipendi medi suddivisi per genere. E poi è necessario potenziare le politiche di conciliazione tra lavoro e vita privata. Il rafforzamento dei congedi di paternità, ad esempio, può contribuire a riequilibrare il carico di cura, riducendo la penalizzazione che le donne subiscono nel mercato del lavoro a causa della maternità.

Le aziende dovrebbero essere inoltre incentivate, tramite sgravi fiscali e incentivi economici, ad adottare pratiche di equità salariale e promozione delle donne in ruoli dirigenziali. Un maggiore numero di donne in ruoli decisionali potrebbe contribuire a ridurre il divario retributivo e a cambiare la cultura aziendale.

Infine, l’educazione e la sensibilizzazione rimangono fondamentali. Promuovere una cultura della parità fin dalla scuola e nelle aziende è essenziale per superare gli stereotipi di genere che ancora oggi condizionano le scelte professionali delle donne e il modo in cui vengono valutate nel mondo del lavoro.



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