Il fiato corto delle strigliate

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Le accuse del presidente riempiono i giornali. Ma nella sostanza non è cambiato nulla. Un catalogo aggiornato

Renato Schifani ha una certezza granitica: la burocrazia siciliana non funziona. E non perde occasione per dirlo, farlo sapere, scaricando ogni colpa sui responsabili. Come accaduto sul dirigente del Dipartimento Lavoro, reo – assieme agli uffici – di non essere riuscito a sbrogliare la matassa che tiene congelati 50 milioni di euro: sarebbero dovuti andare alle imprese siciliane come forma di incentivo per l’assunzione di personale a tempo indeterminato (o per la trasformazione dei contratti da precari a stabili). Era previsto da una legge ben precisa, invece “non riusciamo a spenderli per colpa di una burocrazia non all’altezza”.

Una volta è colpa loro, un’altra degli uffici che non riescono a concludere l’accertamento dei residui, finendo per rallentare i pagamenti alle imprese creditrici. Un’altra ancora dei dipartimenti che non riescono a portare avanti la spesa dei fondi europei. La presidenza Schifani è un campionario di strigliate, ultimatum, musi lunghi e dichiarazioni pubbliche al vetriolo. Il governatore si sente accerchiato, frustrato da un apparato che non risponde, che non esegue, né decide. Talvolta anche peggio: come nel caso di Calogero Franco Fazio, direttore del Consorzio Autostrade Siciliane, reo di aver dichiarato che le autostrade siciliane non reggeranno il traffico del Ponte sullo Stretto. Dichiarazioni sgradite e rispedite al mittente: nei confronti del vertice del Cas è stata avviata una contestazione, ma non è mai arrivata la rimozione dall’incarico (forse le spiegazioni avranno placato l’ira, chissà…).

Il fine corsa è arrivato per altri rappresentanti dell’amministrazione (o collaterali ad essa): da Aroldo Gabriele Rizzo (direttore sanitario di Villa Sofia) a Roberto Colletti, manager della stessa Azienda, che hanno pagato gli effetti di una morte sospetta in ortopedia; da Giacomo Minio (Fondazione Agrigento 2025) ad Arturo Vallone (Capo del Dipartimento regionale Acqua e Rifiuti), che è stato commissariato dalla Protezione civile quando è esploso il caso della Diga Trinità, costretta a sversare le riserve idriche in mare per problemi strutturali rilevati dal Ministero; passando per Antonio Cono Catrini (ex capo del Dipartimento Turismo). In certi casi le teste sono saltate, in altri hanno semplicemente cambiato scrivania. Ma il copione è sempre lo stesso: si individua un colpevole senza paracadute politico e lo si mette alla gogna.

Non c’è settore che si salvi. Sanità, turismo, cultura, gestione dei rifiuti, acque, infrastrutture. Ogni volta che emerge un problema, Schifani individua un colpevole. Quando la discarica di Lentini ha chiuso, ha tuonato: “Non ne sapevo nulla” (in quel caso ebbe da ridire sull’operato degli assessori competenti: Di Mauro e Pagana). Quando il piano d’emergenza per la siccità ha mostrato un tasso d’attuazione ridicolo (17%), ha puntato il dito contro le Assemblee territoriali idriche e i tecnici regionali. Quando il programma SeeSicily ha mostrato le sue falle, e Cono Catrini revocò i contratti con gli albergatori che avevano beneficiato delle somme senza distribuire un solo voucher, è stato il dirigente a finire sotto accusa.

Schifani governa come in un eterno gioco dell’oca: ogni emergenza è una casella di partenza, ogni buco è colpa d’altri. Ma i burocrati non sono gli unici nel mirino. Anche la Corte dei Conti, che teoricamente non dipende da lui, è stata oggetto della sua rabbia. È successo più volte: quando ha chiesto lumi sull’iter di completamento dei reparti di terapia intensiva post-Covid, quando ha messo il becco sulla diga Trinità, quando ha avviato verifiche sull’emergenza idrica. Schifani ha risposto con una proposta di nomina congiunta dei giudici contabili, mai vista prima in settant’anni di autonomia. “È previsto dallo Statuto”, ha detto, ma il sottotesto è più chiaro: voglio metterci bocca, perché non mi fido.

Non si fida (granché) neanche della Gesap, che avrebbe rallentato la privatizzazione dell’aeroporto di Palermo. Per questo ha chiesto l’azzeramento della governance, ritenuta “senza visione”, dopo aver interrotto il dialogo con l’ex amministratore delegato, Vito Riggio (che lui stesso aveva voluto una prima volta, e richiamato una seconda, al timone della società). L’ipotesi di fare tabula rasa è stata respinta, però, dal sindaco di Palermo Roberto Lagalla, un altro rivale interno, con il quale le incomprensioni sono all’ordine del giorno.

Lo stesso è accaduto con l’assessore Francesco Paolo Scarpinato, al quale ha stoppato l’aumento del biglietto nei musei dopo che era già stato deciso. O con il dirigente dell’Energia, rimproverato pubblicamente per la lentezza nei lavori al Castello Utveggio: colpa di una ditta di Favara che non si spicciava. A febbraio dell’anno scorso, in un impeto di rinnovamento, aveva promesso: “Non rinnoverò molti dei vertici della burocrazia”. Era l’ennesima minaccia, a cui solo parzialmente ha dato seguito (con l’esclusione, fra gli altri, del preferito di Tamajo: Carmelo Frittitta).

Questa è la guerra del presidente. Un conflitto che tiene banco nei titoli dei giornali, ma non cambia la sostanza. La macchina amministrativa siciliana è ingessata, vecchia, e non solo in termini anagrafici. È un apparato che vive di autoreferenzialità, che procede a rilento, che non vuole assumersi responsabilità, che interpreta ogni norma come un ostacolo piuttosto che come una guida. Schifani lo sa. E sa anche che nessun colpo di teatro, nessuna rimozione individuale, nessuna lettera di richiamo può scalfire davvero un sistema che si è stratificato nel tempo come un blocco di pietra.

Le strigliate servono a far notizia, ma non a incidere. Anzi, spesso certificano la distanza abissale tra politica e realtà, tra la burocrazia e i bisogni della gente. Per cambiare davvero servirebbe una riforma seria, strutturale (vedi la riforma della pubblica amministrazione, per cancellare i dirigenti di terza fascia, rimasta incompiuta), un lampo di visione e coraggio che finora nessuno ha avuto. Servirebbe ripensare il rapporto tra dirigenti e politica, tra amministrazione e cittadini. Di certo non bastano le sfuriate del presidente. Né gli annunci. Né i comunicati. Né l’ennesimo capro espiatorio sacrificato all’altare dell’opinione pubblica. Il rischio è che, a forza di cercare un colpevole per ogni cosa, ci si dimentichi che il problema è dappertutto.





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