«In campo scientifico le aziende non puntano più solo al profitto ma al controllo politico»

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Il chimico Gianfranco Pacchioni è a Mantova, nel quadro del festival Food & Science, per presentare il suo libro «Scienza chiara, scienza scura» appena pubblicato dal Mulino. Nel saggio Pacchioni, ordinario all’università Bicocca di Milano, sostiene che parlare di «scienza aperta» come si faceva nel Novecento oggi sia impossibile, perché grandi imprese e industria militare hanno rivoluzionato le regole del gioco della comunità scientifica. «A cambiare il quadro è stata la nascita delle cosiddette Big Tech, aziende come Google, Amazon, Meta, Apple che dispongono di una ricchezza e una capacità di ricerca e sviluppo che normalmente le società private non hanno» spiega. «E che continuano a crescere attraverso le acquisizioni di alte società innovative in cui lavorano ricercatori molto validi. Anche in passato c’erano gruppo così importanti, basti pensare alla AT&T negli Usa. Ma in quel caso intervenne la commissione antitrust, ben più incisiva di oggi, a dividere in società più piccole quelle che rischiavano di monopolizzare un settore»

Gianfranco Pacchioni

Il suo libro racconta come le modalità della scienza aperta, trasparente e disinteressata, in apparenza si siano diffuse in molti ambiti anche commerciali. Ma questo non ha impedito che il potere nel settore tecnologico si sia concentrato in poche mani. Cos’è andato storto?

La scienza aperta ha indubbiamente molti aspetti positivi. Ma apre una contraddizione: i dati vengono prodotti in ambito accademico e poi ceduti al pubblico e soprattutto alle aziende, e non era previsto che i dati acquisissero il valore economico che hanno oggi. L’avvento di tecnologie come l’intelligenza artificiale basate su grandi quantità di dati ha cambiato il panorama. E adesso questi dati vengono analizzati dalle aziende a scopo di profitto.

La scarsa trasparenza ha intaccato la fiducia dei cittadini nei confronti della scienza?

Non credo che ci sia tutta questa consapevolezza. E in fondo si sono sempre denunciate le commistioni tra scienza e interessi privati. La fiducia nella scienza è calata perché la tecnologia avanza a un ritmo così rapido che le persone sono impaurite e non riesce a prevedere cosa sarà il futuro. Un tempo, la vita dei nonni era simile a quella dei nipoti, e oggi questo non è più vero. È ciò che genera inquietudine, rifiuto e spinge qualcuno a rifugiarsi nel complottismo per proteggersi da un mondo che cambia. A questo si aggiunge il fatto che il nostro futuro anche a breve termine, oltre a essere ignoto, è affidato a poche grandi aziende ed è qualcosa da temere e su cui fare attenzione. Saranno loro a stabilire come vivremo nei prossimi cinque anni. È un tema complesso e di cui si parla poco. Ma se lo si porta all’opinione pubblica la politica viene messa in condizione di occuparsene. Il dibattito sull’intelligenza artificiale ha fatto sì che il Parlamento europeo approvasse l’AI act. Si può fare.

Oggi le corporation dell’informatica sono molto interessate al mercato della sanità privata. Come mai?

Tutto nasce, come sempre, dai dati. Avere dati sulle persone (salute, età, caratteristiche fisiche) è fondamentale per sapere e influenzare come vivono, cosa mangiano e il loro stile di vita in generale. Ma poi si va oltre. Oggi anche lo sviluppo di farmaci è basato sull’intelligenza artificiale, come testimonia il premio Nobel assegnato alla società DeepMind controllata da Google. Ma è difficile stabilire se usino i dati per conquistare il mercato sanitario, o se mettano le mani sulla sanità per acquisire dati sulle persone. Il rapporto tra questi due aspetti è circolare. Le aziende puntano al profitto, ma anche al controllo politico.

Come fanno le aziende a sviluppare conoscenza nei loro laboratori, e sfruttare anche quella prodotta in ambito pubblico?

Un metodo è bandire selezioni per progetti di ricerca da finanziare. In questo modo ricevono proposte da ricercatori che lavorano al di fuori dell’industria, magari nell’ambito pubblico. E così capiscono cosa bolle in pentola anche nel campo della ricerca pubblica. Non deve sorprendere però: le imprese hanno sempre tradotto in innovazione le idee della ricerca di base. La novità è che oggi hanno assunto una dimensione monopolistica che finisce per cambiare le regole del gioco.

Oltre al potere delle imprese, lei racconta anche il difficile rapporto tra comunità scientifica e industria bellica. È possibile stabilire un confine netto tra la ricerca pura e quella duale, utile sia al settore civile che a quello militare?

Difficile stabilire il confine. Le armi oggi assumono forme diverse. Le prossime guerre si potrebbero combattere sul terreno della cybersicurezza, che magari provocherà meno morti ma danni molto ingenti. E la ricerca informatica è un settore militare o civile? Il E computer quantistico, che rivoluzionerà la crittografia?

È possibile controllare la ricerca per indirizzarne le applicazioni in senso pacifico?

Mi sembra difficile controllare le idee. Come racconto nel libro, una scossa elettrica da 3000 volt può restituire la vita in un defibrillatore, o toglierla in una sedia elettrica. L’applicazione è diversa ma la ricerca è la stessa. Se tutti i governi fossero democratici il problema non si porrebbe. Ma nel mondo le democrazie stanno diminuendo.

L’invasione della Russia e la guerra a Gaza hanno portato la comunità scientifica a interrompere molte collaborazioni con la Russia ma non con Israele. Qual è la posizione da tenere a suo avviso?

Da sempre collaboro con tutti senza barriere. In passato ho avuto collaborazioni con l’URSS, con la Germania dell’Est e anche oggi, se avessi collaborazioni con colleghi russi o israeliani non le chiuderei volentieri. Mi dispiace vedere un mondo che si chiude mentre la scienza apre ponti. La mia personale visione è che quando si parla di scienza pura la geopolitica non debba impedire le collaborazioni. Se si parla di tecnologia il discorso invece è diverso. Il confine tra l’una e l’altra, però, è labile.



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