Restare è possibile: lavoro, casa e formazione per tenerci i giovani

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Intervista a Emiliano Mangone, presidente di Confapi Siena

Presidente, ogni anno tanti giovani lasciano la nostra provincia per cercare altrove migliori opportunità. È ancora possibile costruire qui un futuro attrattivo?

“È possibile, ma serve coraggio politico e visione. Dobbiamo smettere di rincorrere mode o misure episodiche. Quello che serve è un modello strutturale, solido, continuativo. Una politica giovanile vera deve legare lavoro, previdenza, casa, formazione. E soprattutto deve partire da un ascolto profondo dei territori, delle persone che li abitano. Restare deve diventare una scelta possibile e dignitosa, non un sacrificio”.

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Lei parla anche di previdenza. Non è un tema troppo lontano dalle preoccupazioni immediate di un giovane?

“È vero, può sembrare lontano. Ma è un errore strategico pensarla così. Per un giovane, sapere che fin dal primo contratto può aderire a una forma di previdenza complementare, gestita in modo trasparente, mutualistico, con costi bassi e vantaggi fiscali, è un atto di fiducia nel proprio futuro. La previdenza non è solo il “dopo”: è uno strumento di cittadinanza attiva oggi. È un patto tra generazioni, tra territorio e persona. Ecco perché immaginiamo un modello locale di welfare integrato, che preveda anche incentivi pubblici e aziendali all’adesione. È un messaggio chiaro: “Se resti e lavori qui, costruisci un domani con basi solide”. Questo, nei territori fragili, fa la differenza”.

Sta parlando di creare un fondo pensione territoriale?

“Non per forza un nuovo fondo, ma di aderire in modo coordinato a strumenti esistenti, sul modello di quelli nati in alcune regioni del Nord. Parliamo di fondi complementari negoziali, dove le parti sociali – imprese e lavoratori – sono protagonisti e garanti. In territori come il nostro, questo può essere un tassello fondamentale di una strategia per rendere attrattivo restare. Una misura così può parlare ai giovani: non con promesse vaghe, ma con strumenti reali, visibili, personalizzati”.

E in questo quadro, quale può essere il ruolo delle istituzioni locali?

“Le istituzioni possono fare molto, anche in termini fiscali. Incentivi comunali per i giovani che decidono di aderire a un fondo pensione complementare. Sgravi per le imprese che favoriscono l’adesione dei propri dipendenti. Si può premiare, anche a livello locale, chi sceglie percorsi previdenziali virtuosi. E questo andrebbe integrato con altre misure fiscali: riduzioni dell’IMU per chi stabilisce la residenza nei piccoli centri, bonus per chi ristruttura e ci vive, micro-credito per le start-up giovanili. Il fisco non è solo una leva di bilancio: può diventare leva di coesione e sviluppo, se usato in modo strategico”.

E sul fronte dell’abitare?

“La casa è centrale. Senza stabilità abitativa, è impensabile parlare di radicamento. Noi immaginiamo politiche integrate di housing sociale, recupero del patrimonio sfitto, collaborazioni tra pubblico, privato e terzo settore. Serve pensare a strumenti concreti per affitti calmierati o cooperative di abitazione collegate ai distretti produttivi”.

Molti Comuni puntano sui borghi per attrarre persone. È una strada efficace?

“Può esserlo, ma solo se si supera la retorica da cartolina. C’è una riflessione importante, contenuta in una recente tesi che analizza proprio le politiche di ripopolamento delle aree interne in Toscana: viene messo in discussione l’uso strumentale della “borgomania”. L’idea di vendere i borghi come luoghi autentici, per turisti o nuovi residenti creativi, rischia di svuotare il senso stesso del vivere quotidiano in quei luoghi. Se trasformiamo i paesi in set fotografici, li condanniamo. Non li abitiamo, li spettacolarizziamo”.

Quindi che alternativa propone?

“L’alternativa è guardare ai paesi come centri di vita, non come scenografie. Serve una politica basata sul luogo, costruita non dall’alto, ma assieme a chi quei luoghi li vive. Partecipazione, co-progettazione, visione integrata. Al contrario, strumenti più calati dall’alto come il “Bando Borghi” spesso finiscono per generare investimenti disallineati dalle reali esigenze. Non basta ristrutturare un edificio: bisogna riattivare legami, opportunità, servizi, fiducia”.

E la formazione?

“La formazione deve diventare continua, territoriale, condivisa. Serve una rete stabile di aggiornamento professionale, che accompagni le carriere. Ogni impresa dovrebbe poter contare su un polo formativo, magari condiviso con altri attori del territorio. E ogni giovane sapere che restare in una piccola città o in un’area interna non significa tagliarsi fuori dal mondo, ma poter crescere, aggiornarsi, competere”.

Non sembra semplice per le PMI sostenere tutto questo.

“Infatti non devono farlo da sole. Serve una vera alleanza territoriale: PMI, Comuni, Fondazioni, Università, associazioni di categoria. Serve che i fondi europei non siano solo bandi, ma strumenti di co-programmazione. E serve una cultura della fiducia reciproca. Le imprese vanno messe nelle condizioni di fare squadra, di essere parte di un progetto di sviluppo territoriale, non semplice erogatrici di lavoro”.

In sintesi, che messaggio lancia ai giovani?

“Restare qui è una scelta politica, culturale, economica. Ma deve diventare anche una scelta felice. Per questo servono politiche pubbliche serie, capaci di valorizzare il quotidiano, non l’eccezionale; le comunità reali, non le narrazioni di moda. E servono strumenti duraturi: un welfare locale, una casa accessibile, un lavoro dignitoso, una formazione che accompagni. Il futuro non è solo nelle grandi città. È anche nei piccoli centri che imparano a credere in sé stessi”.



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