Burocrazia, quel macigno sulla strada delle imprese

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Un vero e proprio macigno, pesantissimo e ingombrante. In Italia la burocrazia continua a rappresentare un freno implacabile allo slancio delle imprese, un peso invisibile ma tangibile che grava in modo sproporzionato sulle spalle del tessuto produttivo, in particolare su quello delle piccole e medie imprese. Secondo le stime più recenti della CGIA di Mestre, ogni anno questo groviglio di norme, obblighi, scartoffie e attese si traduce in un esborso complessivo pari ad almeno 80 miliardi di euro, una cifra colossale che sottrae risorse fondamentali alla competitività del sistema Italia.


Il quadro che ne emerge è quello di una macchina amministrativa inefficiente e lenta, che troppo spesso obbliga gli imprenditori a impiegare tempo, energie e personale solo per restare a galla nel mare magnum delle regole. Non si tratta solo di un problema economico, ma di un vero ostacolo culturale e strutturale che mina alla base la fiducia degli operatori economici e scoraggia gli investimenti, soprattutto quelli provenienti dall’estero. Le microimprese, in particolare, sono costrette a sacrificare risorse preziose nella compilazione di moduli, nella produzione di certificazioni, nella gestione di pratiche farraginose, talvolta per ottenere semplici autorizzazioni o informazioni elementari. L’incombenza quotidiana di queste pratiche burocratiche restituisce il volto reale della trappola normativa in cui vengono fagocitate migliaia di attività produttive. Eppure, malgrado qualche timido segnale di progresso, la complessità delle regole e l’inadeguatezza della loro attuazione rimangono una costante. A tutto ciò si aggiunge il ritardo cronico nei tempi di rilascio di permessi e autorizzazioni, che in Italia continuano a collocarsi fra i più lenti d’Europa, una condizione determinata anche da un livello di digitalizzazione dei servizi pubblici ancora insufficiente rispetto agli standard europei.


Ne risulta una pubblica amministrazione che, nella media, fatica a rispondere con efficienza e tempestività, penalizzando così l’intero sistema produttivo. Anche laddove esistono punte di eccellenza, come nella sanità, nella ricerca o in alcuni ambiti universitari, il quadro generale è quello di una struttura amministrativa che fatica a stare al passo con le trasformazioni economiche e tecnologiche in atto. I costi della burocrazia sono percepiti da imprese e cittadini come un peso ormai intollerabile, una patologia cronica che impedisce all’economia nazionale di sprigionare tutto il suo potenziale. L’efficienza dei servizi pubblici dovrebbe rappresentare un punto di forza del Paese, e invece troppo spesso costituisce un fattore di svantaggio competitivo.


Secondo l’indagine della Banca Europea degli Investimenti, il 90 per cento delle imprese italiane è costretto a destinare parte del proprio personale esclusivamente alla gestione degli adempimenti normativi. Nessuno dei grandi Paesi dell’Unione Europea presenta un dato peggiore: in Francia si attesta all’87 per cento, in Germania all’84 e in Spagna all’82, con una media europea pari all’86 per cento. Ancora più allarmante è il fatto che il 24 per cento degli imprenditori italiani afferma di impiegare oltre il 10 per cento della propria forza lavoro per far fronte agli obblighi burocratici, mentre in Germania la percentuale scende all’11, in Francia al 14 e in Spagna sempre al 14, con una media UE del 17 per cento. Questo sovraccarico di mansioni amministrative sottrae tempo prezioso all’innovazione, alla produzione, alla strategia e all’internazionalizzazione, rendendo le imprese italiane meno competitive nel confronto internazionale.


Anche sul piano della qualità istituzionale delle amministrazioni locali, l’Italia mostra segni evidenti di arretratezza: nell’indagine del 2024 condotta dall’Università di Göteborg sulle 210 regioni europee, il Friuli Venezia Giulia è la regione italiana più virtuosa, ma occupa solo il 63° posto; seguono Trento all’81°, la Liguria al 95° e Bolzano al 96°. Le regioni del Sud, invece, scivolano in fondo alla classifica: Puglia, Calabria, Molise e Sicilia si collocano tra il 195° e il 208° posto, a conferma di un divario territoriale che amplifica ulteriormente le difficoltà delle imprese meridionali.


L’Italia, nel suo complesso, appare intrappolata in un sistema che rende complicato anche il più semplice degli adempimenti, disincentivando l’iniziativa privata e ostacolando la nascita di nuove attività. È necessario invertire la rotta, puntando con decisione sulla semplificazione normativa e sull’ottimizzazione dei processi amministrativi. Una recente iniziativa in questa direzione è rappresentata dal disegno di legge approvato ad aprile dal governo, che prevede l’eliminazione di oltre 30.700 norme obsolete risalenti al periodo compreso tra il 1861 e il 1946: una misura che, se approvata in via definitiva, porterà a una riduzione del 28 per cento del corpus normativo vigente. Si tratta di un passo simbolico ma anche concreto verso un alleggerimento burocratico, anche se resta ancora molto da fare per rendere il sistema Italia più snello, trasparente ed efficiente.


La strada è lunga e non esistono soluzioni miracolose, come ha sottolineato la stessa CGIA, ma è evidente che senza un intervento deciso sul fronte della burocrazia, ogni altra riforma rischia di essere inefficace. Occorre quindi un impegno costante da parte della politica, delle istituzioni e della società civile affinché l’apparato pubblico non sia più un ostacolo ma un alleato nella crescita economica. In un mondo sempre più competitivo e interconnesso, l’Italia non può permettersi di perdere attrattività agli occhi degli investitori stranieri, né di continuare a ostacolare i propri imprenditori con un sistema burocratico che, invece di accompagnare lo sviluppo, lo soffoca.




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