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Parlando di fronte all’assemblea degli industriali, la premier Meloni ha scelto con cura il suo messaggio. Ha puntato l’indice contro i ‘‘dazi interni’’. Una espressione un po’ equivoca in quanto i dazi sono per definizione nei confronti dell’esterno, in questo caso si riferiva alle barriere che ci sono per una piena integrazione dei mercati a livello europeo. La premier ha fatto riferimento ad uno studio del Fondo Monetario Internazionale secondo il quale ‘‘il costo medio per vendere un bene tra gli stati dell’Unione europea equivale a una tariffa di circa il 45%, rispetto al 15 stimato per il commercio interno negli Stati Uniti. Nel caso dei servizi la tariffa media stimata arriva al 110%’’.
L’utilizzo dell’espressione ‘‘dazi’’ non è casuale in quanto riecheggia quelli imposti in modo brutale da Trump e riprende un refrain, tanto caro a questo governo, che vuole i problemi dell’Italia venire dall’Europa. Il tema non è affatto nuovo: Draghi nel suo report sulla competitività europea spende parole molto chiare sugli effetti negativi della mancata integrazione; anche il Presidente degli industriali Orsini e il Governatore della Banca d’Italia Panetta hanno posto in evidenza il problema proprio la scorsa settimana.
È bene precisare che i dazi interni sono rappresentati dai costi impliciti necessari per operare in mercati diversi dell’Unione a causa di vincoli regolamentari o normativi. Si tratta quindi di ‘‘dazi’’ stabiliti dall’Unione o dai singoli stati nazionali.
La diagnosi parte da un dato incontrovertibile: dal 2005 in avanti la produttività degli Stati Uniti è cresciuta del 40% mentre in Europa è rimasta stagnante, il risultato è che il divario tra Europa e Stati Uniti in termini di PIL pro-capite è andato ampliandosi in modo inesorabile a partire dalla crisi del 2007, dal 20% siamo giunti quasi al 50%.
In realtà, la diagnosi del Fondo Monetario mette in evidenza quattro punti critici per l’Europa: limitata integrazione del mercato, mercato dei capitali poco sviluppato, mancanza di capitale umano, riforme strutturali in stallo.Tutto ruota attorno all’innovazione. L’Europa non è un campione in questo campo: il divario tra Stati Uniti e Europa nella produttività delle imprese ad alta tecnologia è ben più ampio di quanto osservato nelle altre imprese. Le aziende ad alta tecnologia americane spendono più del doppio delle aziende europee in attività di ricerca e sviluppo.
La limitata integrazione del mercato europeo non favorisce lo sfruttamento di economie di scala e, quindi, gli ingenti investimenti necessari per innovare da un punto di vista tecnologico.
Mercati dei capitali frammentati e fondati soprattutto sul credito bancario non favoriscono il finanziamento delle aziende innovative. Il capitale di rischio (azioni) è infatti più adatto per finanziare l’innovazione e trova poco spazio nelle aziende europee, come testimoniato dalla limitata diffusione del venture capital rispetto a quanto osservato negli Stati Uniti. Quanto a capitale umano, l’Europa è sulla frontiera scientifica in molti campi ma esporta persone qualificate e non è altrettanto attrattiva. Le condizioni di lavoro e le retribuzioni non sono infatti competitive.
Le riforme strutturali invocate dal Fondo riguardano la capacità di spesa europea e la sua qualità, che risultano assai limitate, e l’assetto di governance che non è in grado di rimuovere le barriere all’integrazione e di promuovere politiche per la crescita adeguate. Questa situazione rappresenta un equilibrio non virtuoso che è difficile da scalfire. Un equilibrio che vede convergere gli interessi dei diversi paesi, che hanno a cuore la difesa degli interessi nazionali, e le istituzioni europee gelose delle proprie prerogative.
Un equilibrio che è il risultato di due tratti caratterizzanti la governance europea.
In primo luogo, lo spazio autonomo dell’iniziativa politica delle istituzioni europee è limitato, l’assetto istituzionale prevede un complicato sistema di mediazione tra i diversi stati nazionali che porta a una iper-regolamentazione. Un assetto in cui le istanze di tutela degli interessi particolari vengono esaltate. Il terreno di confronto è quello della creazione di uno spazio economico comune piuttosto che delle politiche di sviluppo autonome.
In secondo luogo, la decisione di portare avanti la tutela degli interessi costituiti e le istanze redistributive da parte dei governi nazionali ha giocato storicamente un ruolo preponderante. Non a caso il 60% del bilancio dell’Unione è destinato alle politiche agricole e di coesione e solo una parte residuale è destinata alle politiche di sviluppo e all’innovazione.
Questi due aspetti hanno dato forma ad un’Europa disegnata strutturalmente per tutelare gli standard di vita raggiunti dai cittadini, che spesso sono parenti delle rendite, piuttosto che per promuovere la crescita. Questa impostazione non dipende dalla natura più o meno europeista dei partiti e dei governi, quanto dalla governance europea così come è stata costruita. Per seguire le indicazioni del Fondo, l’Europa avrebbe bisogno di uno shock istituzionale (debito comune, ministro economia comune, esercito comune, capacità di bilancio ampliata). Un passo che non si vede all’orizzonte.
Ammesso che si vada in questa direzione, il tema che si pone poi è molto semplice: in Europa vogliamo continuare a difendere gli interessi costituiti, gli standard di vita raggiunti o vogliamo, piuttosto, seguire Stati Uniti e Cina che puntano sulla crescita? Il rischio è che di questo passo ci troveremo con una economia forse più eguale delle altre ma anche molto più piccola.
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