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Il turnover è ormai un problema reale per le imprese. Le dimissioni volontarie dei collaboratori e la necessità di individuare nuove figure per sostituirli rappresentano un problema crescente per molte aziende. Secondo The European House – Ambrosetti il costo che l’organizzazione va a sostenere in questi casi è pari a circa il 50% della retribuzione annua lorda (RAL) del lavoratore o della lavoratrice che decide di andarsene. Un esborso che per molte realtà, soprattutto se di piccole dimensioni, può essere insostenibile. Ma andiamo con ordine e cerchiamo di capire perché oggi si parla così tanto di questo fenomeno – che abbiamo già affrontato qualche mese fa – e, soprattutto, quali strumenti possono essere messi in campo per evitarlo.
In Italia c’è più voglia di cambiar lavoro
Secondo quanto emerge dal rapporto European Workforce Study 2025, stilato a livello europeo da Great Place to Work ascoltando i pareri e le opinioni espresse da quasi 25.000 collaboratori attivi in 19 Paesi del Vecchio Continente, a livello europeo il 31% dei dipendenti dichiara di voler cambiare lavoro (Figura 1). Questa percentuale sale al 40% tra chi lavora in Italia: il nostro Paese è al primo posto. davanti a Francia e Polonia, entrambe (38%), Portogallo (37%), Irlanda (35%), mentre a seguire ci sono Cipro, Grecia e Regno Unito (33%).
Di contro, tra i Paesi più virtuosi in tema di employee retention – termine inglese che indica la capacità di un’organizzazione di trattenere i propri dipendenti, evitando dimissioni e turnover – ci sono invece la Norvegia, con solo il 25% di chi lavora che dichiara di voler andarsene, Paesi Bassi e Germania al 23%. L’Austria occupa la prima posizione con il 21% (Figura 2).
Allargando l’analisi sulla base delle fasce d’età emerge come in tutti i Paesi considerati sia la Generazione Z, cioè la fascia d’età compresa tra i 18 e i 24 anni, a far registrare la percentuale più alta, pari al 40%, tra coloro che dichiarano di voler cambiare ambiente di lavoro. I dipendenti più giovani, infatti, hanno aspettative più elevate nei confronti dei manager e dei leader aziendali e sono dunque più propensi a cercare nuove opportunità professionali nel caso le promesse del management non vengano rispettate.
È inoltre interessante notare come la voglia di cambiare posto di lavoro decresca con l’avanzare dell’età: a livello europeo infatti il 36% dei dipendenti e dei manager di prima linea che hanno tra i 25 e i 34 anni dichiara di voler cercare un nuovo lavoro nel corso dell’anno, percentuale che scende al 30% tra chi ha tra i 35 e i 44 anni, al 28% nella fascia d’età tra i 45 e i 54 anni fino al 25% registrato tra gli over 55.
Quanto conta la felicità sul posto di lavoro
Ma quali sono le ragioni per cui tanti lavoratori e tante lavoratrici in Italia vorrebbero cambiare lavoro? Uno spunto interessante per rispondere a questa domanda arriva dall’Osservatorio BenEssere e Felicità, un’indagine svolta annualmente su 1.000 nostri connazionali per comprendere la percezione di felicità e benessere al lavoro e nella vita in generale.
I dati dell’ultima rilevazione dell’Osservatorio, pubblicata qualche settimana fa, sono simili a quelli presentati sopra. Alla domanda “ti piacerebbe avere la possibilità di cambiare posto di lavoro o lavoro nei prossimi 12 mesi?” il 24% afferma di voler cambiare azienda o posto di lavoro (in linea con la precedente rilevazione), scende al 17% la percentuale di chi vorrebbe cambiare mestiere o mansione lavorativa (l’anno scorso era il 21%). Nel concreto, dunque, 4 persone su 10 vorrebbero cambiare.
Analizzando le priorità nella scelta di un nuovo lavoro, il 48% degli intervistati indica la retribuzione come fattore principale. Seguono poi la flessibilità (22%) e le opportunità di crescita (21%), mentre il welfare aziendale è considerato determinante dal 13%.
Il welfare aziendale può aiutare a trattenere chi lavora?
L’Osservatorio dedica un focus proprio a quest’ultimo punto. Gli strumenti di welfare promossi dalle imprese sono riconosciuti da molti (60% degli intervistati) come un elemento che contribuisce al benessere sul lavoro. Secondo la ricerca, le misure più diffuse sono buoni pasto (52%), buoni acquisto (34%) e buoni carburante (31%). Si tratta quindi di interventi volti a dare un supporto di natura economica ai dipendenti, attraverso la diffusione di buoni e voucher spendibili presso strutture convenzionate (solitamente della Grande Distribuzione Organizzata).
Come spesso riportiamo nei nostri approfondimenti, dunque, il welfare aziendale rimane un aspetto considerato importante per chi lavora. Inoltre, dall’Osservatorio emerge come per le imprese centralità appaia meno legato alla volontà delle imprese di migliorare la propria immagine pubblica, raccontare all’esterno “quanto sono brave”. Oggi il welfare è essenziale in termini di retention delle persone e, in quanto tale, necessario per ridurre i rischi derivanti dalle dimissioni dei collaboratori.
Cosa ci dicono i dati
Secondo uno studio condotto da SDA Bocconi per Edenred Italia, il 20% delle imprese con piani strutturati di welfare ha ridotto il proprio tasso di turnover oltre la soglia del 10%, mentre più della metà ha registrato un incremento dell’organico. Si tratta di risultati che, a dire dei curatori, evidenziano come investire nel welfare possa avere effetti concreti anche sulla stabilità dei team e sulla continuità operativa. Inoltre, secondo lo studio, il 54% delle imprese che hanno introdotto piani di welfare strutturati hanno registrato una crescita del fatturato superiore al 10%, segno che il benessere organizzativo può tradursi anche in risultati economici migliori (Figura 3).
Il fatto che sempre più aziende riconoscano nel welfare una leva strategica (anche) per trattenere i talenti appare un dato interessante.
Tuttavia, i numeri ci ricordano che la strada è ancora lunga: secondo l’Osservatorio Welfare 2024 di Edenred Italia (di cui trovate qui un nostro approfondimento), se oltre il 50% delle grandi aziende ha già adottato un piano strutturato, tra le piccole e medie imprese, che rappresentano la maggior parte del tessuto produttivo italiano, questo genere di investimenti sono ancora limitati e marginali.
È un limite che rischia di trasformarsi in un’occasione mancata per le aziende, soprattutto le più piccole, che potrebbero valorizzare meglio le proprie persone ed aumentare la retention, per i dipendenti che potrebbero avere accesso a servizi e strumenti per migliorare concretamente la loro qualità della vita e per i territori, che potrebbero trarre beneficio economico e sociale dai legami più solidi tra chi lavora e chi genera valore.
Proprio per questo oggi non basta più offrire iniziative spot. Per avere un impatto reale e duraturo, il welfare aziendale deve evolvere e diventare parte della cultura organizzativa rispondendo ai bisogni concreti delle persone e adattandosi alle diverse fasi della vita lavorativa.
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