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La cosiddetta sindrome metabolica può causare danni al cervello anche in persone tra i 40 e 60 anni: rischio di ammalarsi 8 volte maggiore. Meglio controllarsi e prendere provvedimenti
Un girovita snello non serve solo a ridurre il rischio di diabete o malattie cardiovascolari, ma anche a mantenere sano il cervello: uno studio coreano pubblicato di recente su Neurology dimostra che avere la sindrome metabolica aumenta la probabilità di ammalarsi di demenza prima di aver compiuto 60 anni.
Persone giovani
«È la prima volta che la correlazione viene evidenziata in persone giovani: si sa che la sindrome metabolica aumenta il rischio di demenza dopo i 65 anni, questi dati sottolineano che il pericolo vale anche per le forme più precoci», osserva Anna Ludovica Francanzani, direttore della Medicina a indirizzo metabolico alla Fondazione Irccs Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano.
La sindrome metabolica viene diagnosticata quando si hanno almeno 3 dei 5 parametri che la definiscono:
- una circonferenza della vita elevata,
- pressione, glicemia e trigliceridi alti,
- colesterolo Hdl («buono») basso.
È una condizione abbastanza comune, come confermano anche i risultati di questa ricerca.
Che cos’è
La sindrome metabolica è una condizione complessa e il risultato di tanti fattori, ma c’è accordo nel ritenere che uno dei meccanismi principali alla base del problema sia la resistenza all’insulina da parte di organi e tessuti, che non rispondono più come dovrebbero all’azione dell’ormone necessario per regolare i livelli di glucosio nel sangue. Muscoli, tessuto adiposo, fegato non riescono a utilizzare o immagazzinare lo zucchero, il pancreas risponde producendo più insulina; da questo squilibrio metabolico deriva la sindrome e di conseguenza un maggior rischio di obesità, diabete di tipo 2, malattie epatiche e cardiovascolari.
Il metodo migliore per prevenire l’insulino-resistenza? Fare movimento in maniera costante: l’attività fisica migliora la sensibilità dei tessuti all’insulina, inoltre aumenta la massa muscolare e sono proprio i muscoli ad assorbire e utilizzare il glucosio. L’allenamento regolare poi riduce la massa grassa e il grado di infiammazione generale, che quando è elevato contribuisce invece all’insulino-resistenza.
Lo studio
Gli autori infatti, analizzando i dati raccolti dalle assicurazioni sanitarie su poco meno di due milioni di persone che si erano sottoposte a un check-up fra i 40 e i 60 anni ed erano state seguite poi in media per 8 anni, hanno verificato che 1 su 4 aveva la sindrome metabolica.
Il guaio è che fra chi ne soffre la probabilità di ammalarsi di una forma di demenza giovanile è più alta della norma: «In assoluto il rischio è otto volte maggiore (specie nelle donne, ndr), inoltre all’aumentare del numero dei fattori della sindrome metabolica cresce anche il pericolo, che è cumulativo», dice Fracanzani.
«L’associazione si è osservata per entrambe le forme più diffuse di demenza, sia quella vascolare sia quella di Alzheimer: i meccanismi con cui la sindrome contribuisce sono verosimilmente diversi nei due casi, ma il legame è evidente».
Fattori di rischio
Nella demenza vascolare per esempio è noto un ruolo negativo della pressione alta, nell’Alzheimer sembrano coinvolte iperglicemia, resistenza all’insulina e stress ossidativo.
Chi soffre di sindrome metabolica peraltro assomma più di un elemento di pericolo, che di conseguenza sale ancora di più. Il rischio, inoltre, è maggiore nei più giovani, perché se già intorno a 40 anni i diversi parametri distintivi della sindrome sono alterati, aumenta il tempo trascorso «fuori equilibrio».
Gli organi danneggiati
«I dati sono robusti», sottolinea Fracanzani. «Il messaggio è chiaro: è importante una diagnosi precoce della sindrome metabolica, senza aspettare di arrivare a 60 anni prima di controllare glicemia e pressione, valutare il profilo lipidico o misurarsi il girovita. Se intorno ai 40 anni si hanno uno o più elementi della sindrome occorre correre ai ripari e far tornare i valori nella norma, perché, soprattutto se si sommano più elementi negativi, il pericolo di danneggiare gli organi è concreto. Sapevamo che la sindrome metabolica fa male al cuore, al fegato, ai reni: ora è evidente che ha ripercussioni negative anche sul cervello e questo può essere uno stimolo in più per agire, diagnosticandola presto ma, soprattutto, intervenendo con un cambiamento drastico dello stile di vita».
È questa la soluzione migliore, come concludono anche gli autori dello studio coreano: mangiare sano e fare movimento per mantenere il peso nella norma, smettere di fumare, gestire lo stress sono le regole più importanti per prevenire e per curare la sindrome metabolica.
Il fegato grasso
Uno degli organi che più spesso fa le spese della sindrome metabolica è il fegato: nei pazienti è frequentissima la comparsa di steatosi, il cosiddetto fegato grasso, soprattutto se il girovita è troppo largo. In questi casi il tessuto adiposo si accumula attorno agli organi, ma pure dentro: il fegato si infarcisce di cellule adipose e quelle epatiche vanno in sofferenza, compare l’infiammazione e il tessuto pian piano può diventare fibrotico, cioè duro e poco funzionante.
Oggi la steatosi riguarda circa 1 persona su 3, quando saranno debellate del tutto le epatiti virali si stima diventerà la prima causa di trapianto di fegato: è fondamentale prevenirla ma anche curarla e all’ultimo congresso dell’European Association for the Study of Obesity sono stati presentati dati secondo cui le terapie utilizzate contro l’obesità possono essere utili anche per la steatosi associata a disfunzione metabolica, la cosiddetta Mash.
«L’obiettivo, in chi ha sovrappeso od obesità e steatosi, è risolvere sia le alterazioni metaboliche connesse all’eccesso di tessuto adiposo, sia l’infiammazione», dice Roberto Vettor, responsabile del Centro per le Malattie Metaboliche e della Nutrizione all’Irccs Humanitas di Rozzano (MI). «Gli agonisti GLP1 hanno mostrato di ridurre la quantità di tessuto adiposo, migliorarne la qualità e avere un effetto positivo sull’infiammazione: uno di essi, per esempio, diminuisce del 28% la steatosi epatica e riduce anche l’eventuale fibrosi. Se si tratta bene l’eccesso di peso, vista la relazione di causa-effetto con la patologia epatica, anche il fegato ne trae vantaggio. L’importante è diagnosticare il danno epatico: nelle persone con malattie metaboliche come obesità o diabete di tipo 2 è quasi certo che ci sia una Mash, è perciò raccomandabile sottoporsi a un’ecografia e a fibroscan (un’elastografia epatica non invasiva, ndr) per la diagnosi».
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