L’eccezionale impresa di essere normali

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Essendo quasi astemio, non corro il rischio dell’oste che elogia il proprio vino quando sostengo che stampa e tv locali sono più credibili e utili dei media nazionali. La convinzione va crescendo di ora in ora davanti allo scempio dei talk e dei cosiddetti giornaloni che gli fanno da eco: dopo settimane di comprensibili maratone sui due papi, Francesco e Leone, ora siamo alle prese con il delitto di Garlasco, minuto per minuto e state certi che non ci priveranno dei tempi supplementari.

Nel frattempo tengono banco le guerre, con gli esperti della mutua che cambiano parere e versione dall’alba al tramonto, mantenendo come epicentro del dibattito la domanda se la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, sia o no il pontiere tra Europa e Stati Uniti. Una sorta di piccione viaggiatore che porta oltreoceano messaggi in chiaroscuro, godendo di una presunta simpatia con zio Donald.

Io non ne posso più. E mi chiedo quando lavorino, dico lavorino, i colleghi di stanza negli studi televisivi, quale che sia l’argomento. Una compagnia permanente di virologi, criminologi, pacifisti, guerrafondai, esperti di politica estera, economisti, insomma tuttologi, capaci di travestimenti fulminei che Fregoli gli fa un baffo. Ma è lacerante in me la freddezza con la quale stilano il bilancio dei morti, soprattutto i bambini che dovrebbero essere il cuore di ogni invocazione e preghiera e dalla strage di Erode in poi sono stati per me il motivo più dirompente per chiunque abbia fede e se la veda talvolta vacillare.

Sollecitato anche dalla coerenza con il ragionamento e dal pungolo di un mio collega particolarmente intraprendente, due appelli mi hanno colpito questa settimana. Il primo è quello di Cristiano Berlanda, bellagino, campione paralimpico di golf, abbandonato alla nascita perché privo di una gamba. Nello sport ha trovato riscatto a un destino che sembrava segnato. Dopo un folle sorpasso di una moto da lui subito sulla Lecco-Bellagio, ha lanciato un appello ai centauri: «La strada non è una pista. Basta un urto a 70 all’ora per passare da una domenica in sella a una vita in sedia a rotelle». Parole dure e vere, cadute amaramente mentre nelle stesse ore tre gravi incidenti funestavano le nostre strade. Un padre di famiglia ha perso la vita in uno schianto terribile mentre si recava al lavoro.

Piovono gli interrogativi. Perché le strade sono piene di limiti ignorati da chi corre al doppio della velocità? Perché chi prova a far rispettare la legge viene accusato di voler far cassa? L’autovelox antidoto ai tachimetri troppo rapidi viene vissuto come un’angheria. Il secondo monito è di Marco Anemoli, capo del Soccorso Alpino lecchese. Da inizio anno, tre morti sulle nostre montagne. Interventi quotidiani, rischiosi, eroici. Escursionisti improvvisati, in scarpe da tennis, quelle di Jannacci e non certo di Sinner, salgono sentieri impervi. “In montagna ci vuole la testa”, ribadisce Anemoli. Non la sfida, non la leggerezza.

E mentre qui ci giochiamo la vita per un brivido, un selfie, una sfida personale, altrove si muore per sopravvivere. Al fronte cadono migliaia di uomini. Il Mediterraneo è diventato la tomba di famiglie in cerca di futuro.

Cinquanta anni fa, Lucio Dalla cantava: “L’impresa eccezionale, dammi retta, è essere normale.” Oggi, quell’impresa si è evoluta. Essere normali non basta più. Viviamo infatti in un’epoca che brilla di opportunità e allo stesso tempo soffoca di contraddizioni. S’avverte un umanesimo che si dissolve con i giovani sempre più demotivati, anche perché prigionieri di un benessere effimero da riscattare con emozioni da poco, talvolta fatali.

La vita sembra contare meno, eppure inseguiamo l’elisir dell’eternità. Per raggiungerla abbandoniamo la vie dello spirito e ci aggrappiamo alle diete ferree e ai faticosi allenamenti quotidiani. Poi, nella sintesi di un attimo, il dì di festa si veste a lutto. La cronaca per finire, in specie quella locale, assume sempre più i contorni di una lezione sempre più preziosa nella sua tragica amarezza.

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