Corte dei conti, in tre anni l’Italia rischia lo scoppio di una bolla occupazionale

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La Corte dei conti, nella relazione sulla gestione finanziaria dell’Inps pubblicata oggi, getta una nuova ombra sulla strada maestra che il governo ha scelto per dare fiato al lavoro in Italia: gli sgravi contributivi per le assunzioni. Sull’andamento delle entrate contributive, precisano dalla Corte, occorrerà valutare gli effetti dell’esonero contributivo per le nuove assunzioni con il Jobs act.

«Infatti, qualora da tali misure non derivi un effettivo incremento occupazionale – e le nuove assunzioni siano ascrivibili a mere trasformazioni della durata e della natura contrattuale di rapporti in essere – il mancato introito di risorse proprie per effetto della decontribuzione richiederebbe un ulteriore incremento di trasferimenti dal settore pubblico la cui provvista ricadrebbe sulla fiscalità generale. Inoltre, tenuto conto del periodo massimo di trentasei mesi di durata dell’esonero dal versamento dei complessivi contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro, la scadenza delle agevolazioni potrebbe determinare un incremento delle cessazioni dei rapporti di lavoro – instaurati o trasformati in funzione della decontribuzione – con conseguente ricorso alle prestazioni a sostegno al reddito e all’adozione di misure per la ricollocazione dei lavoratori».

In altre parole, se il “boom” del lavoro reclamizzato negli ultimi mesi dal governo Renzi dovesse confermarsi in gran parte dovuto a trasformazioni di contratti già esistenti, e non a nuove assunzioni, questo comporterebbe un notevole aggravio per le casse pubbliche, visti i profumati incentivi cui hanno potuto godere le imprese. Non solo: la Corte dei conti ritiene plausibile che, una volta decaduto il regime di incentivi (della durata di 3 anni), si configurino licenziamenti di massa. Una bolla occupazionale, creata artificialmente dal governo, che allo scoppio porterebbe ulteriori tensioni in un Paese già oggi gravato da una cronica mancanza di lavoro.

Uno scenario da incubo, e tutt’altro che peregrino. Nell’ultimo rapporto Istat sulla competitività dei settori produttivi, appena pubblicato, si afferma come per «la metà delle imprese manifatturiere che hanno dichiarato un aumento netto di occupazione tra gennaio e novembre 2015, gli esoneri contributivi sembrano aver rappresentato l’elemento decisivo per l’aumento dello stock occupazionale», mentre il contratto a tutele crescenti introdotto con il Jobs act è stato giudicato molto o abbastanza importante ai fini dell’assunzione di nuovo personale solo dal 35% delle imprese, a fronte di un 55% per cento che la considera poco o per nulla rilevante.

Né gli sgravi contributivi, né (a maggior ragione) il Jobs act contribuiscono a sciogliere il nodo che lega il Paese: quale modello di sviluppo perseguire in un mondo sempre più globalizzato, dove la mancanza di lavoro e la disuguaglianza hanno ormai assunto le dimensioni di una piega sociale, e gli impatti sull’ecosistema che ci ospita stanno conducendo a danni irreversibili? Si tratta di un quesito intrinsecamente complesso, che meriterebbe un approccio altrettanto complesso, quello della sostenibilità nella sua declinazione ambientale, economica, sociale. Continuando il dibattito a colpi di tweet, sarà difficile approdare a una qualsivoglia elaborazione – per non dire governo – del problema, e la risultate continuerà ad essere quella degli ultimi decenni: la casualità.



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